Tariq Ramadan e Abdullahi An-Na’im, due tra i più noti intellettuali e riformisti musulmani contemporanei, sono stati posti di fronte l’uno all’altro da Reset-Dialogues on Civilizations in un incontro per discutere della shari’a, la legge islamica, e se debba avere un posto e quale nelle Costituzioni delle nuove democrazie arabe. Entrambi i pensatori auspicano la piena realizzazione della democrazia nel mondo arabo e sistemi costituzionali che garantiscano l’eguaglianza tra cittadini, il rispetto dei diritti umani e il pluralismo, ma Ramadan ritiene che possa essere utile che la shari’a sia nominata nelle costituzioni arabe per dare alla democrazia un sostegno «dall’interno» della religione e cultura islamica, mentre per An-Na’im le sfere della religione e della politica devono rimanere separate per garantire la laicità dello Stato.
A poche settimane dal referendum sulla costituzione egiziana voluta dallo schieramento islamista di Mohammed Morsi e energicamente contestata dalle opposizioni di piazza Tahrir, sul sito dell’associazione internazionale Reset-Dialogues on Civilizations prosegue il dibattito sul futuro dei diritti, delle minoranze e della cittadinanza nelle nuove democrazie del mondo arabo. In un dialogo coordinato da Nina zu Fürstenberg, Tariq Ramadan e Abdullahi An-Na’im, due tra i più noti intellettuali e riformisti musulmani contemporanei, discutono uno dei nodi centrali delle transizioni mediterranee: nominare la shari’a nelle nuove costituzioni è democraticamente accettabile? E quali potrebbero essere le conseguenze di un riferimento del genere? La shari’a è solo un insieme di principi e una guida morale per i credenti, oppure la cosiddetta “legge islamica”, imposta dallo Stato e implementata dal diritto positivo, può essere una fonte di legittimità democratica? Sono questioni decisive e delicatissime, che lacerano il mondo della primavera araba e che raramente vengono approfondite dagli osservatori occidentali. I due filosofi, intervistati da Reset-DoC nel lungo video diffuso sul sito dell’associazione, espongono punti di vista diversi, utilissimi per comprendere gli estremi del problema.
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Pur condividendo con il laico An-Na’im la speranza nella piena realizzazione della democrazia nel mondo arabo e sistemi costituzionali che garantiscano l’uguaglianza tra cittadini e il rispetto dei diritti umani, Tariq Ramadan vorrebbe che la shari’a fosse comunque nominata nelle costituzioni arabe, affinché i musulmani possano trarne i principi di giustizia per perseguire una democratizzazione dei propri paesi in un percorso “interno” all’Islam e dunque legittimato dal punto di vista della propria religione e tradizione. Persuaso dell’impossibilità di “convincere la gente a seguire un progetto politico se questo viene avvertito come estraneo al proprio ordine di riferimento”, il filosofo svizzero ritiene che, “invece di eludere il problema, sia molto meglio spiegare che proprio il riferimento alla shar’ia impone l’uguaglianza tra tutti i cittadini proprio in nome dell’Islam e dei suoi obiettivi più nobili”. Il compito “pedagogico” degli intellettuali e dei legislatori starebbe proprio nello spogliare il concetto di shari’a dalle interpretazioni più retrograde e violente, mettendone invece in evidenza – anche grazie al riferimento costituzionale – il carattere originario inclusivo ed egualitario, nonché la natura intrinsecamente etica, contrastando su queste basi le letture normative e letteraliste diffuse dagli esegeti più estremisti.
Per il sudanese An-Na’im, invece, in un’evoluzione costituzionale coerentemente democratica, le sfere della legittimità religiosa e di quella politica non dovrebbero intersecarsi, né tantomeno sovrapporsi: un riferimento esplicitamente religioso come quello alla legge islamica nella costituzione egiziana, tunisina o libica rappresenterebbe di per sé una minaccia ai diritti delle minoranze non musulmane, all’uguaglianza dei cittadini, al rispetto delle donne e alla stessa libertà religiosa. Inoltre, spiega il filosofo, “come ordinamento normativo dell’Islam, vale a dire come somma dei doveri di un musulmano, la shari’a per sua natura – e proprio questo è il suo valore aggiunto – deve poter essere praticata volontariamente. Introdurla nel sistema costituzionale e normativo di uno Stato equivarrebbe a imporla ai cittadini, travisandone la natura e il valore eminentemente religiosi”. Ma, quel che è peggio, commenta An-Na’im criticando la “vocazione pedagogica” del riferimento costituzionale a una shari’a “etica” e aperta invocata da Ramadan, “oggi la shari’a sarà compresa nel suo significato attuale, e non quello che le attribuisci tu. È del modo in cui viene intesa qui ed ora che dobbiamo occuparci e preoccuparci… le persone non intendono la shari’a nel modo in cui la intendi tu”. An-Na’im conclude quindi che solo uno Stato laico può garantire la realizzazione della giustizia nelle società musulmane nel pieno rispetto dei diritti umani e dell’Islam.
Invitiamo a seguire il dibattito lanciato da Reset-Dialogues on Civilizations su www.resetdoc.org insieme a molti altri articoli, tra cui segnaliamo le tre nuovissime voci del Lessico Interculturale dell’associazione curate dal celebre filosofo ungherese-americano Andrew Arato: Costituzione, Rivoluzione e Società civile.
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