Da Reset-Dialogues on Civilizations
Forse è un compromesso storico, forse è esagerato definirlo tale. In ogni caso, l’accordo sottoscritto dalla Serbia e dal Kosovo a Bruxelles, venerdì scorso, non può essere liquidato come una cosa da poco. Se non altro perché va potenzialmente a sbloccare il “conflitto congelato” sul versante settentrionale dell’ex provincia di Belgrado, principale pomo della discordia tra i due paesi e fonte al tempo stesso delle emicranie della diplomazia internazionale.
Da dopo la fine della guerra (1999), nonostante il ritiro dei suoi militari, Belgrado ha continuato a controllare pienamente questo lembo di terra a maggioranza serba tramite le cosiddette “istituzioni parallele”: scuole, polizia, uffici pubblici, moneta. Il Kosovo, che cinque anni fa autoproclamò unilateralmente l’indipendenza, non ha modo di esercitare la sovranità su una parte del suo territorio.
Ora, con il documento sottoscritto a Bruxelles si pone teoricamente fine a uno stato di tensione legale e politica permanente. Pristina concede alle municipalità serbe del Kosovo del nord il diritto all’autogoverno, con deleghe ampie su istruzione, salute, sviluppo e pianificazione urbana. In cambio la Serbia smantella le sue strutture di polizia, facendole confluire in quelle di Pristina, ma riservandosi la nomina di un serbo-kosovaro al vertice del comando istituito presso i quattro principali comuni serbi del nord. Il compromesso si estende anche alla magistratura, con un’adeguata rappresentanza serba nel sistema giudiziario kosovaro e l’istituzione di una speciale corte d’appello, a maggioranza serba, con competenza sui reati dei cittadini serbo-kosovari del nord.
Per Mara Gergolet, giornalista del Corriere della Sera esperta di Balcani, «questo accordo è apprezzabile e molto realista. Belgrado ammette l’autorità del governo di Pristina sul Kosovo settentrionale, ma ottiene uno schema molto avanzato di tutela della sua minoranza (i serbo-kosovari sono 100mila a fronte di due milioni circa di albanesi). Il Kosovo dal canto suo riconosce l’esistenza e i diritti di questa minoranza e accantona dunque l’idea di prendersi il nord con i muscoli». Pristina aveva giocato questa carta nel luglio del 2011, inviando reparti speciali di polizia a occupare le dogane con la Serbia. L’operazione aveva scatenato una durissima reazione dei serbi.
La “calamita” europea
Gli accordi di Bruxelles lasciano in sospeso molte cose, tra cui il diritto del Kosovo a prendere parte alle organizzazioni internazionali e la situazione dei serbi che vivono nel Kosovo centrale e meridionale. Qualcuno a Belgrado accusa il governo di averli condannati all’isolamento. Non tutto si poteva avere, comunque. Lo spettro delle questioni oggetto di negoziato è stato necessariamente ristretto, affinché dai colloqui potesse uscire un risultato.
Molti analisti ritengono che sia stato l’incentivo della prospettiva europea la leva che ha portato a finalizzare le trattative, iniziate lo scorso autunno e mediate da Catherine Ashton. La “ministra degli esteri” dell’Ue, vincolandolo il compromesso al rapporto con l’Europa, è riuscita a mettere d’accordo anche chi, come la coalizione “nazionalista” al potere a Belgrado e il premier di Pristina, ex coordinatore politico dell’insurrezione antiserba del 1998-1999, aveva sempre manifestato approcci radicali sulla vertenza del Kosovo settentrionale, sintetizzata dalla vicenda della città etnicamente divisa di Kosovska Mitrovica.
La Ashton ha spiegato ai serbi che senza smantellare le istituzioni parallele non avrebbero ottenuto il disco verde all’apertura dei negoziati sull’adesione all’Ue, prontamente caldeggiata dalla Commissione subito dopo la chiusura degli accordi. Ai kosovari, che sul fronte dell’integrazione europea sono molto più indietro, è stata invece offerta l’apertura del processo che porta agli Accordi di associazione e stabilizzazione, anch’essa annunciata all’indomani della firma dell’intesa di Bruxelles. Si tratta dal primo, importante passo nella costruzione di una partnership con l’Europa.
Sul tavolo c’è anche la liberalizzazione del regime dei visti. Depotenzierebbe la “bomba sociale”. I cittadini del Kosovo, unico stato balcanico a non godere di concessioni comunitarie sulla circolazione delle persone, vivono infatti chiusi in casa. Non possono viaggiare, non possono andare alla ricerca di lavoro in Europa. E nel paese la disoccupazione lambisce il 50%.
I fronti interni
Ci si chiede: gli accordi terranno? Ci sono dubbi e incognite, ma è opinione dei più che né la Serbia, né il Kosovo possono permettersi di non implementarli. Certo è che Dacic e Thaci dovranno fare i conti con l’opposizione interna. Più che il banco di prova parlamentare (l’assemblea di Pristina ha già approvato gli accordi e quella di Belgrado dovrebbe farlo venerdì), preoccupa la reazione delle piazze. In Kosovo può essere il partito Vetevendosje, contrario a ogni patto con i serbi, a fare molto baccano. Si temono tensioni e scontri. «Sarà importante che Washington e Bruxelles aiutino Thaci a “vendere” l’accordo con Belgrado», confida una fonte diplomatica americana.
Quanto alla Serbia, i suoi connazionali del Kosovo, che lamentano – peraltro giustamente – di essere stati esclusi dalle trattative, sono già scesi in piazza una prima volta. Le loro proteste potrebbero creare difficoltà all’esecutivo. Andrea Lorenzo Capussela, su Osservatorio Balcani e Caucaso, spiega tuttavia con forte senso di pragmatismo che «se la Serbia si attiene all’accordo, quest’ultimo probabilmente reggerà perché senza il sostegno di Belgrado la resistenza del nord sarà meno efficace ed è probabile col tempo sbiadisca». È sempre Capussela, che ha trascorsi nell’amministrazione internazionale in Kosovo, a rilevare che gli accordi portano la Serbia a riconoscere de facto il Kosovo. Anche se passerà ancora del tempo prima che si arrivi a rapporti diplomatici veri e propri.
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Immagine: La scritta, apparsa sul muro di un cantiere di Pristina nel 2007 recita “Nessun negoziato – autodeterminazione!”. Nello stesso periodo, scritte simili apparvero in molte aree albanesi del Kosovo.