Da Reset-Dialogues on Civilizations
Beirut – Il mio nome è “Bellissimo”, dice col suo inglese e il suo sorriso amaro Jamil, palestinese siriano che da sette mesi vive nello storico campo di Shatila, perfieria sud di Beirut. “Qui è tutto diverso – racconta – anche a Damasco vivevo in un campo ma le condizioni non erano nemmeno paragonabili a quelle che ho trovato qui. Avevamo l’acqua e la luce, mentre qui riuscire a bere è un problema e il sole non si vede mai”.
Una delle prime e visibili conseguenze del conflitto in Siria è l’affluenza dei profughi che per il Libano rievoca passati difficili, e presenti irrisolti. La presenza dei palestinesi è cresciuta nel corso degli anni, e questa nuova ondata di persone preoccupa. Chi non ha la “fortuna” di essere ospitato nei campi profughi del paese è costretto a cercare soluzioni alternative. Molte famiglie arrivate dalla Siria, soprattutto nella valle della Bekaa, hanno deciso di insediarsi in quelle case in perenne costruzione, ma mai finite, dei cittadini libanesi che durante la guerra civile avevano lasciato la zona per poi tentare un ritorno, fallito a causa della mancanza di occupazione.
Le alture del Chouf sono disseminate di nuovi ruderi eretti mattone su mattone, cemento vivo, senza porte né finestre, disperse nella vegetazione e accessibili spesso solo attraverso strade sterrate. Safa, originaria di Hama, è arrivata in Libano sette mesi fa con il marito e i loro otto bambini, che da quando hanno oltrepassato il confine non hanno più visto una scuola. Con loro vivono altre tre famiglie, venti figli in tutto, e gli uomini scendono a valle tutte le mattine all’alba per cercare un lavoro. Le donne aspettano e provano a dare un senso alla casa, e preparare un pasto da servire a tavola.
L’Unhcr li ha registrati e ha fornito loro un po’ di provviste, ma nulla di più. Il governo libanese li vede come un nuovo problema e non stanzia alcun tipo di fondi, né preme per allestire campi attrezzati perché spera che la situazione si risolva nel più breve tempo possibile. Alcune famiglie del posto si occupano di loro, come pure i preti del convento greco-melkita di June, che sono riusciti a far arrivare l’acqua ad alcune di queste case, e che si stanno attrezzando per accompagnare i bambini alle scuole più vicine, anche se servono macchine o pulmini che nessuno possiede. E i mezzi pubblici qui non arrivano.
Riscendendo verso la costa si arriva a Saida, dove gli echi della guerra si sentono meno. Sul lungomare e nel souq la vita scorre lentamente, ma solo camminandoci in mezzo ci si rende conto che quella che una volta era una meta turistica di rilievo ha cambiato volto, e nessuno ci viene più in vacanza. Qui è già sud, e la presenza di Hezbollah nelle amministrazioni locali si sente di più. Trenta km più all’interno c’è Nabatieh, dove proprio pochi giorni fa le milizie Hezbollah hanno consegnato all’esercito libanese i check point che avevano messo in piedi dopo le ultime autobombe a Beirut. Fuori da Nabatieh, risalendo le colline di terra, pietre e sterpaglie secche per chilometri, si arriva a Mlita, mille metri d’altezza, dove si staglia una cattedrale nel deserto fatta di cemento che è il Museo della Resistenza, una struttura aperta al pubblico per duemila lire libanesi, per quei pochi che riescono a raggiungerla, che Hezbollah ha realizzato nei luoghi storici degli scontri con l’esercito israeliano. Armi e mezzi militari sottratti e messi fuori uso sono stati utilizzati per realizzare sculture e installazioni, che ora fanno parte di un percorso espositivo in gran parte all’aperto, nel bosco, fra cunicoli scavati nella roccia e un tempo rifugio dei miliziani.
La guida turistica, perfetto inglese, è un ragazzo di poco più di vent’anni che invita a cominciare la visita con la visione di un video introduttivo di Hassan Nasrallah, per poi passare a spiegare ogni singola battaglia in cui uno dei carri armati che ora spuntano dalla spianata di cemento siano stati abbattuti. Sulla Siria si sbilancia: “Se Assad chiama, noi siamo pronti”. In quella frase, pronunciata da un giovane che oggi fa la guida turistica, è racchiusa in qualche modo l’essenza di un paese, e di una vita, perfettamente in costante equilibrio su un crinale, fra guerra e quiete. Non pace, perché la storia del Libano di pace ne ha conosciuta poca.
Anche a Tripoli, seconda città per numero di abitanti a trenta km dal confine nord con la Siria, è evidente che la situazione di calma in cui ci si immerge per continuare a vivere è solo apparente. Fuori dal centro storico, famoso per la locale produzione di sapone, oltre che per uno dei mercati più ricchi del paese, le vie e le piazze principali sono segnate da check point, raramente dell’esercito libanese e più spesso “spontanee”: due barili di latta con le bandiere, e qualcuno di guardia dentro le case. Qui gli scontri sono all’ordine del giorno, soprattutto fra i due quartieri alawita, pro Assad e sunnita, separati da Syria Street, che capita si fronteggino a colpi di fucile, all’improvviso, e dove i palazzi alternano centinaia di buchi nei muri a lunghe file di panni stesi e foto di martiri di questa guerra silente. Proprio a Tripoli, nell’agosto scorso, due attentati hanno fatto 47 vittime: entrambe le moschee prese di mira, Al Taqwa e Al Salam, sono state quasi completamente ricostruite, ma a ricordare la strage peggiore dalla fine della guerra civile ci sono sempre i pannelli con le foto di quel giorno, dell’uomo che alza le braccia al cielo con i corpi e il fumo alle spalle.
La gente spiega con una semplicità disarmante le contrapposizioni che tagliano la città: “Alawiti e sunniti, a sinistra e a destra della strada”, dice il tassista in un misto di arabo e inglese, mentre con le mani mima un’esplosione.
Beirut invece non ti spiega nulla, ma parla attraverso le differenze della gente e dei quartieri: da sola la capitale è un viaggio fra le religioni e gli stili di vita, cuore di business internazionale e luogo capace di racchiudere sacche di povertà estrema. Ma si percepisce che qualcosa è cambiato. La gente racconta di un crollo del turismo, e di problemi occupazionali crescenti che alcuni leggono proprio nell’arrivo dei profughi siriani. Senza contare i problemi endemici del paese che qui sono molto più evidenti: l’acqua, prima di tutto, i rifiuti, e le infrastrutture, dall’elettricità alla rete internet. E la paura latente di nuove scosse, e ripercussioni su un sistema fragile.
Vai a www.resetdoc.org
Nell’immagine: rifugiati siriani al confine con il Libano, settembre 2013
Non so perchè, ma quel popolo lo amo tanto, Vorrei per loro pace e prosperità. Dovranno costruirla sulle macerie delle distruzioni materiali e morali che qualcuno ha deciso di spargere, non è chiaro perchè. Non è solo sete do potere, non è solo difesa di un pensiero e di un territorio. Lì ci devono essere interessi sovranazionali che si vogliono realizzare a scapito della povera gente. Non sono neanche capaci di essere solidali fra loro, eppure storicamente è come se fossero un unico popolo. Mi sento triste.