Da Reset-Dialogues on Civilizations
Venticinque agosto 1992. Una di quelle date che a Sarajevo tutti, inesorabilmente, ricordano. È il giorno in cui le milizie serbo-bosniache, assistite dall’Armata jugoslava (controllata da Belgrado) e acquartierate sulle colline che circondano la città, da dove la strinsero d’assedio fino al 1995, fecero piovere granate e colpi di mortaio sulla Vijecnica. Uno dei simboli della città. L’edificio, dalla sagoma possente, fu costruito dagli asburgici sul finire dell’800. Sorge sulla sponda sinistra della Miljacka, il fiume che scorre nella capitale della Bosnia-Erzegovina, schermando, se inquadrato dall’altra riva, il nucleo ottomano di Sarajevo, testimonianza di un’altra epoca e di un’altra dominazione.
L’attacco da parte serba scatenò l’incendio nella Vijecnica, al quel tempo sede della biblioteca nazionale di Bosnia, dopo che fino al 1949 aveva ospitato il consiglio comunale. Custodiva migliaia e migliaia di volumi, alcuni dei quali antichi. Una grossa fetta di quel ricco patrimonio culturale e letterario fu danneggiata dalle fiamme e andò persa. Fu anche in virtù di questa storia, triste, che prese piede il concetto di “urbicidio”. I serbi, se avessero voluto, avrebbero potuto prendere Sarajevo, tanta era, almeno all’inizio, la sproporzione tra le forze in campo. Ma ciò non rientrava nei loro piani. Il loro progetto era quello di spartirsi la Bosnia con i croati, secondo linee determinate da criteri etnici. A Belgrado la parte a maggiore densità serba della Bosnia, a Zagabria quella con più peso specifico croato. In mezzo sarebbe rimasto un piccolo fazzoletto di terra a maggioranza musulmana, ritagliato intorno a Sarajevo. Che però andava sfregiata. Questo era il senso dell’urbicidio. Non conquistare una città, ma tenerla costantemente sotto tiro, umiliarla e logorarla.
In tutto questo bisogna considerare che anche da parte musulmana emerse l’interesse a mantenere l’assedio alla città. Tornava utile, specialmente in chiave criminale. Mercato nero e contrabbando furono una costante di quei tre anni e non risentirono della propaganda etnica, la copertura che si diede a una guerra motivata da dinamiche economiche e predatorie. Ma ridurre l’assedio a questo discorso, sminuendo la violenza che fu esercitata su Sarajevo, è limitante. Ci fu l’urbicidio, ci furono i morti, ci fu la bieca violenza.
Questo venerdì, a distanza di ventidue anni dall’incendio dell’agosto del 1992, la Vijecnica tornerà alla città e ai suoi abitanti. La ricostruzione è finita. Anche gli interni, dopo che la facciata era stata spogliata dalle impalcature, qualche tempo fa, sono pronti.
Il sindaco di Sarajevo, Ivo Komsic, ha riferito che il palazzo verrà destinato a tre necessità. Sarà a disposizione delle istituzioni cittadine, ospiterà una biblioteca e verrà usato in funzione museale. Nel giorno della riapertura si terrà, oltre al concerto della filarmonica sarajevese, una mostra. Verranno esibiti al pubblico i libri salvati dall’incendio del 1992.
L’evento cade non a caso il 9 maggio, nel giorno in cui l’Europa festeggia la sconfitta dei nazifascismi. Vuoi perché Sarajevo vuole pensarsi europea e vuoi perché – così almeno viene da dire – c’è una sorta di filo rosso tra la seconda guerra mondiale e la guerra di Bosnia, la più cruenta registrata nel corso del processo di dissoluzione della Jugoslavia. Insomma, ci sarebbe modo di festeggiare il ritorno in vita del simbolo più evidente dell’urbicidio, tornando a riflettere sul conflitto bosniaco e sul martirio di Sarajevo.
Ma l’impressione è che non ci sia tutto questo slancio. Né fuori e né dentro la Bosnia. La stampa internazionale non ha dato finora troppo risalto all’inaugurazione della Vijecnica. Forse perché le urgenze sono altre (Ucraina). Forse perché la Bosnia e i Balcani non fanno più titolo. Forse perché sono gli stessi sarajevesi a presentarsi con un po’ di distacco all’evento del 9 maggio.
La Bosnia vive infatti non da ieri una fase di stanchezza. Il paese non produce riforme, l’economia ristagna, il processo di integrazione europeo è fermo al palo. Nei mesi scorsi ci sono state proteste popolari, contro la corruzione, di entità spaventose, che alberga nelle stanze dei bottoni. Una ventata senz’altro salutare, ma che non ha graffiato così a fondo. Tanti cittadini restano disillusi. Chi lotta lo fa guardando al portafogli, al lavoro e ai diritti. Nell’uno e nell’altro caso non c’è molta voglia di ricominciare, ancora una volta, dalla guerra e dal passato. Il che contraddice, in parte, quell’idea di Bosnia legata al fatto che tutto, ma proprio tutto, dal voto al rapporto con il vicino di casa, sia vincolato alle tragedie di vent’anni fa e al modo in cui si ci rapporta, individualmente e collettivamente.
Altre possibile lettura. I lavori sono durati e costati tanto. Il che, potenzialmente, solleva il sospetto che qualcuno abbia intascato qualcosa sottobanco. Si potrebbe pensare che le autorità, poiché le proteste recenti si sono indirizzate proprio contro la corruzione e l’arricchimento della classe dirigente, abbiano volutamente gestito la questione dell’inaugurazione in maniera discreta, lavorando di sordina.
Terzo scenario. Bisogna tenere conto che la Vijecnica di oggi non sarà come la Vijecnica di ieri. Come hanno riferito più volte i responsabili dei lavori, i colpi di mortaio nel ’92 hanno sbriciolato parecchi muri e tanti ornamenti. Non è stato possibile ridare alla vecchia biblioteca le sembianze di una volta. Il che, potrebbe darsi, ha raffreddato i sentimenti.
Detto questo, è tranquillamente possibile che il 9 maggio, a Sarajevo, ci sia una bella giornata di festa, partecipata. Che la gente affluisca in massa lì accanto al letto della Miljacka e festeggi la resurrezione della Vijecnica. Che la stampa internazionale azioni le macchine e faccia fare a questa notizia il giro del mondo. Sempre che questa sarà la notizia.
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Nella foto: La biblioteca nazionale nel 1992