Da Reset-Dialogues on Civilizations
La rivolta è esplosa il 25 agosto, quando mezzo milione di persone (è la cifra ripresa da tutta la stampa indiana) sono scese in piazza nella città di Ahmedabad, capitale dello stato occidentale del Gujarat, uno dei più industrializzati e sviluppati dell’India. I manifestanti appartengono alla casta dei Patel e rivendicavano di essere inclusi tra i gruppi sociali “svantaggiati” che hanno diritto a quote privilegiate negli impieghi pubblici e nell’accesso all’istruzione superiore.
L’evento ha fatto notizia oltre i confini dell’India, anche perché alla manifestazione oceanica (e pacifica) è seguito l’arresto del giovane leader del movimento, tale Hardik Patel, e un’ondata di violenza in tutto lo stato: per alcuni giorni le cronache sono state piene di folle urlanti, auto e case incendiate, raid di polizia, arresti indiscriminati. Quando le acque si sono calmate si contavano una decina di morti, titoli cubitali sulla “rivolta di casta”, e una scia di polemiche: abbastanza da stuzzicare la vena di “orientalismo” sempre in agguato dei media occidentali. In effetti l’agitazione delle ultime settimane nel lontano Gujarat ripropone il dibattito sulla politica delle quote e sui suoi paradossi: l’India vanta il sistema di “azioni positive” più ampio al mondo; solo gli Stati uniti possono reggere il paragone.
La rivolta dei Patel inoltre è il primo conflitto sociale di rilievo che scoppia nell’India di Narendra Modi, il premier arrivato al governo nel maggio 2014 con la promessa di far decollare l’India portando buongoverno, investimenti, lavoro e crescita proprio come aveva fatto in Gujarat, lo stato che ha governato negli anni Duemila. Ora però proprio nel suo Gujarat scoppia un conflitto sociale: questa “rivolta di classi medie”, come la definisce il New York Times, è un esplicito rimprovero al premier e alle sue promesse mancate.
La “casta media” dei Patel
Ma andiamo con ordine. I Patel non sono il primo gruppo sociale in India che chiede di essere incluso tra quelli “svantaggiati”. La novità è che qui si tratta di un gruppo prospero e tutt’altro che emarginato. I Patel (o Patidar) costituiscono circa il 14 per cento della popolazione del Gujarat, ma sono sovrarappresentati nelle élites politiche ed economiche: oggi la chief minister (capo del governo) del Gujarat è la signora Anandiben Patel (il cognome in questo caso indica l’appartenenza di casta); sono Patel sette ministri e così pure il segretario del partito di maggioranza (il Bjp, o Partito della nazione indiana, destra nazionalista), oltre a numerosi deputati all’assemblea statale e al Parlamento indiano.
Nessun’altra casta è così ben rappresentata sia nell’economia rurale che in quella urbana, nota il sociologo Dipankar Gupta. I Patel, casta in origine rurale, sono stati tra i primi a compiere la transizione alla città, agricoltori proprietari di terra che dopo l’indipendenza (1947) hanno investito in varie industrie: oggi dominano nel settore del taglio dei diamanti e hanno una presenza visibile nelle professioni e nell’imprenditoria. Appartiene ai Patel circa il 70 per cento delle “micro, piccole e medie imprese” nel Gujarat (la stima è ancora di Gupta, ndr). A loro appartengono alcune marche di prodotti di consumo note in tutto il paese. Un piede nel villaggio, un altro in città, e uno nella diaspora: in Africa, in Gran Bretagna e negli Stati uniti, dove sono circa 1,7 milioni di persone (forse la maggioranza della popolazione indiana in Usa, occupata soprattutto in hotel e motel). I politici gujarati hanno coltivato i rapporti con questi expat, che mandano soldi a casa aiutando i Patel locali a diventare ancora più prosperi, spiega il politologo Christophe Jaffrelot (su The Indian Express).
Paradossale rivolta dunque, quella dei Patel: una casta che gode di considerazione sociale, annovera ministri e industriali, ora chiede di essere considerata “svantaggiata”?
Certo, una casta non corrisponde a una classe sociale: e non tutti i membri della casta Patel sono benestanti (senza contare che un gruppo così ampio ha i suoi sottogruppi, con relative animosità). Se a un estremo dello spettro ci sono alti funzionari dello stato, ministri, proprietari di imprese di diamanti e capitani d’industria, all’altro estremo ci sono impiegatucci, artigiani tagliatori di diamanti, piccoli agricoltori, disoccupati, e una popolazione crescente di giovani istruiti che non trova un lavoro corrispondente al proprio titolo di studio.
Il punto è che il “vibrant Gujarat” di Narendra Modi è sì uno degli stati dove l’economia è cresciuta più della media indiana, ma tanto successo non ha favorito la piccola impresa. Nei suoi anni come capo del governo statale Modi ha puntato piuttosto sui grandi gruppi industriali indiani e stranieri, ha corteggiato (con successo) petrolchimici e raffinerie e industrie automobilistiche, si è assicurato grandi investimenti a suon di sgravi fiscali, agevolazioni, burocrazia semplificata, buone infrastrutture. Ma la grande industria capital-intensive non crea tanto lavoro quanto ne perdono le piccole aziende. E oggi almeno un terzo delle 260 mila “micro, piccole e medie imprese” (in cui i Patel sono tanto presenti) sono ufficialmente “malate”, in crisi o sull’orlo del fallimento.
Certo, i giovani Patel non sono il solo gruppo sociale a vivere l’incertezza economica. Oggi 600 milioni di indiani, più di metà della popolazione totale, hanno meno di 26 anni. E ogni anno tra 10 e 12 milioni di giovani entrano nel mercato del lavoro. Per creare lavoro serve crescita, ed era questo che Modi aveva promesso. Oggi la frustrazione di tanti giovani indiani comincia a essere visibile, tanto più forte quanto alte erano state le aspettative create proprio dal governo Modi. Il movimento dei Patel oggi esprime questa frustrazione.
Il sistema di azioni positive
È qui che la faccenda della reservation diventa rilevante. Il sistema di azioni positive è inscritto nella Costituzione indiana: ai padri costituenti sembrò lo strumento per correggere la discriminazione e l’apartheid sociale legata all’appartenenza a determinati gruppi. Il sistema delle caste è la più ferrea delle gerarchie sociali (si appartiene a una casta per nascita, come si ha la pelle bianca o nera o gialla): e nessuno è disprezzato quanto chi ne è fuori. Dunque le prime “azioni positive”, già prima dell’indipendenza indiana, furono riservate alle Scheduled Castes e Scheduled Tribes, cioè i Dalit o fuoricasta (oggi non si usano più i termini “paria” e “intoccabili”) e i “tribali”, le popolazioni native del subcontinente indiano (o Adivasi, “primi abitanti”).
Col tempo il sistema di quote è stato esteso ad altri gruppi svantaggiati, le “Other Backward Classes”, Obc: sia caste basse particolarmente marginali, sia altre minoranze (come alcuni gruppi musulmani, che fanno il 12 per cento della popolazione indiana ma figurano ai primi posti nelle statistiche su povertà e esclusione sociale). Secondo alcuni è troppa l’importanza data alla casta nelle scelte politiche; in questi giorni è stato ricordato che le stime sulla popolazione appartenente alle Obc sono discutibili – l’ultimo censimento che abbia registrato le caste risale al 1931, quindi è inutilizzabile, mentre le stime attuali sono passate dal 52 per cento della popolazione totale (nel 1976) al 41 per cento (nel 2007, quando un censimento socio-economico ha trovato che il 60 per cento dell’India rurale è in grave povertà).
E però a partire dagli anni ’80 la reservation su base di casta o gruppo svantaggiato si è rafforzata, anche perché alcuni movimenti sociali hanno portato a ampliare la lista delle “Other backward classes”: oggi quasi metà dei posti nella pubblica amministrazione, e circa altrettante borse di studio nei college, sono riservati ai titolari di azioni positive.
D’altra parte, nei ’90 nell’India settentrionale si sono affermati dei partiti che rappresentano interessi di caste basse o dei Dalit. Così l’appartenenza di casta, rivendicata collettivamente, è trasformata in potere contrattuale basato sul voto.
Intanto anche l’idea di azioni positive ha cambiato segno: da strumento per eliminare una discriminazione sociale e promuovere l’inclusione, è divenuta una forma di welfare che lo stato accorda quei gruppi che hanno una forza elettorale sufficiente a farsi valere.
I giovani delusi dal “modello Modi”
Torniamo così ai Patel del Gujarat. Negli anni ’80 erano già stati protagonisti di due ondate di agitazioni, con grandi violenze di piazza: allora però chiedevano l’abolizione delle quote per le Obc, che denunciavano come un privilegio. È un altro paradosso delle agitazioni di questi giorni.
Oggi Hardik Patel, il giovane (22 anni) che in pochi mesi ha letteralmente costruito da zero un movimento sociale, dichiara che le quote sono “il problema che sta dietro a tutto”, perché se la sua gente non riesce a entrare al college, o a ottenere un posto nella pubblica amministrazione, è perché quel posto va a qualcuno che non ha meriti ma “lo ruba” grazie alla reservation. Poi però, nella stessa intervista, dichiara: «La reservation non si può abolire, perché ormai il paese funziona così, è la base della politica. Così, se non possiamo mettere fine al sistema delle quote, vogliamo entrare a farne parte». Lo dice con livore. Hardick Patel, sconosciuto ai più fino a due mesi fa, viene da una famiglia di piccolissima borghesia (quella che gli americani chiamano middle class) della provincia di Ahmedabad. Nei suoi discorsi parla dell’istruzione che costa sempre di più, degli impieghi pubblici che sono sempre meno, di quelli che “ci rubano i posti” grazie al privilegio delle azioni positive.
In questa agitazione c’è naturalmente un aspetto di politica interna: i Patel sono parte del blocco sociale che ha sostenuto l’ascesa di Modi e del suo partito prima in Gujarat poi al governo centrale, e ora vogliono far pesare i propri voti. Forse dietro al giovane leader ci sono altre figure pronte a sfruttare l’agitazione che ha lanciato. E però non si manovrano facilmente 500 mila persone: il giovane sconosciuto ha fatto presa su tanti giovani Patel suoi simili perché esprime la stessa frustrazione.
Questi giovani Patel sono «vittime della sindrome della neo-classe media», scrive ancora Jaffrelot: hanno creduto negli slogan sull’India che decolla ma sono rimasti a terra, aspirano a far parte della nuova società affluente ma trovano difficile entrarvi perché i posti di lavoro sono scarsi, l’istruzione costa, comprare la macchina e la casa è proibitivo. Sono il segno del fallimento, finora, delle promesse del “modello Modi”. E si sono costruiti una narrativa di “vittime del sistema”: nella politica delle caste è il modo migliore per rivendicare potere, quote, privilegi.