Era nell’aria da tempo. E da quando, lo scorso luglio, il senatore Latorre era andato a incontrare il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, si sapeva che ormai era solo questione di giorni. Per questo desta ancora più amarezza che il cambio di rotta con l’Egitto sia stato annunciato il 14 agosto, nell’obnubilamento ferragostano – come scrive la famiglia di Giulio Regeni- a Camere chiuse e quando i giornalisti stanno andando in riposo. In una data poi che – revisionismo a parte – verrà ricordata sui libri di storia come una delle più sanguinose dell’Egitto contemporaneo. Il governo italiano ha infatti annunciato di voler fare ritornare l’ambasciatore al Cairo proprio nel quarto anniversario del massacro di Rabaa al Adawya, quando in questa piazza del Cairo l’esercito egiziano massacrò almeno 900 persone che si opponevano al golpe del mese precedente, quando Abdel Fattah Al-Sisi prese il potere dopo aver arrestato il presidente islamista Morsi, eletto un anno prima.
Lo slalom del Pd sull’ambasciatore al Cairo
La crisi tra Italia e Egitto scatenata dalla tragica morte di Regeni aveva raggiunto l’apice nell’aprile 2016, quando il governo -PD- decise di fare rientrare a Roma l’ambasciatore Maurizio Massari, diplomatico che all’indomani della scomparsa di Giulio si era distinto per la sua fermezza. Dote grazie alla quale era riuscito ad evitare che il corpo del nostro ricercatore scomparisse come quello di migliaia di desaparecidos egiziani. Vista la scarsa collaborazione della procura del Cairo e considerati i goffi tentativi di depistaggio delle indagini, Roma aveva deciso che l’Egitto sarebbe stato sprovvisto dell’ambasciatore fino a quando non avrebbe aiutato la procura italiana a ottenere verità sul caso.
Il gesto di tenere l’ambasciatore lontano dal Cairo – l’unico vero atto politico del nostro governo- era considerato come il modo più efficace – e il solo tentato -per fare pressione sul regime di Al-Sisi.
Questo almeno fino a ieri, quando il governo– sempre PD – ha comunicato un cambio di strategia, annunciando che ora il modo più efficace per ottenere la verità è fare partire Giampaolo Cantini, uno dei nostri più bravi diplomatici, soprattutto in Medio Oriente, vista la sua profonda esperienza in questa parte del mondo. Designato ambasciatore già nel maggio 2016, Cantini aspetta ora il gradimento egiziano.
Il governo – che in questo slalom ha ricevuto un inedito sostegno bipartisan al quale si è sottratto solo l’anima secessionista del PD- è stato convito a compiere questo passo dopo aver ricevuto dal Cairo i verbali – non ancora tradotti dall’arabo – degli interrogatori dei poliziotti che avrebbero convinto il capo degli ambulanti a denunciare Giulio. A questi si è aggiunta la notizia dell’affidamento – già più volte promesso – delle attività di recupero delle immagini registrate dalle telecamere della metropolitana a una società in grado di recuperarle benché sovrascritte.
Due elementi che sono evidentemente ritenuti dal procuratore capo Giuseppe Pignatone un segnale di una parziale collaborazione.
Non però la consegna della verità alla quale il governo aveva condizionato il ritorno dell’ambasciatore.
I diritti di un cittadino piegati agli interessi dello Stato
Da mesi, si era capito che per molti la ricerca della verità sulla morte di Giulio era diventata un intralcio ai nostri interessi nazionali: cinque miliardi di interscambio, Eni, Edison e Ital Cementi.
E poi la situazione libica e i conseguenti flussi migratori. L’Egitto, principale sostenitore del generale Haftar e delle sue milizie – è una pedina indispensabile per Roma che in questi mesi ha anche dovuto fare i conti con la destrezza della Francia che ha sfruttato la nostra assenza dal Cairo per diventare protagonista.
Anche se il governo ha preferito chiamare le cose con altri nomi, nei fatti i diritti di un cittadino italiano si sono piegati agli interessi dello Stato. Quelli economici e geostrategici, non certo quelli di difesa dello Stato di Diritto.
L’invio di Cantini non sia una resa
La responsabilità della politica è ora dimostrare che ottenere verità per Giulio è ancora una priorità italiana, che interesse degli italiani – interscambio a parte – è anche non accettare che un proprio cittadino venga torturato e ucciso dal governo di un Paese che si professa amico.
Per evitare che l’invio dell’ambasciatore sia una resa è ora essenziale che nell’ottica delle misure progressive di cui lo stesso Gentiloni – allora nelle vesti di ministro degli esteri- aveva parlato, si debbano prendere in esame altre possibili risposte alla mancanza di progressi nelle indagini.
È vero che gli Stati europei si sono sostanzialmente disinteressati alla vicenda , ma è stato fatto di tutto per convincerli? Sono stati fatti sforzi in sede multilaterale? Abbiamo provato, ad esempio, a proporre una risoluzione al Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite per l’istituzione di un’inchiesta che lamenti la sistematica violazione della Convenzione contro la tortura, dentro la quale ricade il caso di Giulio? Forse non riuscirebbe ad ottenere la maggioranza necessaria per la sua adozione, ma sarebbe un tentativo per sollevare la questione in quadro internazionale.
Partendo dal presupposto che Regeni è stato torturato e che tali atti di tortura siano dovuti ad agenti dei servizi di sicurezza locali, il Cairo potrebbe essere convenuto in giudizio di fronte ai tribunali italiani per far constatare la commissione di un crimine internazionale e chiedere il risarcimento.
Sono azioni come queste quelle che la famiglia, e affianco ad essa la Campagna Verità per Giulio, continuerà ad avanzare alla diplomazia italiana, chiedendo alla Farnesina e all’ambasciatore Cantini di evitare che il suo arrivo al Cairo sia davvero un passo indietro nella ricerca della verità.
Per la stampa leale al regime, quella di ieri è l’ennesima vittoria di Al-Sisi. Il ritorno al business as usual, nonostante la vicenda Regeni. Tocca ora al governo – e a tanti che hanno sostenuto questa sua decisione – smentirla.