Conflitti armati, civili vittime di violenza da parte di gruppi terroristici tanto quanto da governi dittatoriali, preoccupanti repressioni del dissenso e ondate di populismo e razzismo in crescita esponenziale. Per dirla con le parole di Gianni Ruffini, direttore di Amnesty International Italia, il mondo sta facendo passi indietro sul piano dei diritti umani.
L’ultimo rapporto Amnesty 2016/2017 fotografa il fallimento delle Nazioni Unite, e dell’Europa, nel cercare una risposta alla crisi globale dei rifugiati, e identifica una serie di eventi che hanno minato alla base il concetto di dignità umana, in spregio a qualsiasi norma di diritto internazionale umanitario. Nelle guerre di Siria e Yemen abbiamo assistito al bombardamento degli ospedali, ai confini dell’Ue al respingimento di profughi scampati ai bombardamenti, alle violenze, ai trafficanti di uomini; in nome della sicurezza e della lotta al terrorismo tanti governi hanno chiesto ai cittadini di rinunciare in parte a libertà civili, partecipazione e privacy, quando non hanno espressamente messo in atto una repressione del dissenso.
La situazione in Europa
In Europa il 2016 è stato l’anno in cui i movimenti populisti hanno segnato un importante avanzamento, sfruttando proprio i sentimenti di insicurezza, oltre che cavalcare la crisi economica: i politici, l’Unione Europea, i mezzi di informazione, ma soprattutto i cittadini stranieri, in particolare musulmani, sono stati presi di mira, con un conseguente indebolimento dello stato di diritto, soprattutto in paesi come la Polonia e l’Ungheria dove tali movimenti hanno raggiunto il potere.
Dopo l’arrivo di un milione di migranti e rifugiati nel 2015, gli stati dell’Ue hanno deciso di ridurne il numero nell’anno successivo, e a fine dicembre erano 358mila le persone che avevano oltrepassato i confini d’Europa. Il calo più drastico c’è stato sulle isole greche, da 854mila a 173mila persone, quasi interamente a causa dell’accordo per il controllo dell’immigrazione siglato da Ue e Turchia. Di contro però sono aumentati i morti in mare: 5mila persone secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), rispetto alle 3.700 del 2015.
Alla Turchia sono stati offerti sei miliardi di euro per sorvegliare le proprie coste e riprendere sul suo territorio i richiedenti asilo arrivati in Grecia, in cambio della garanzia – impossibile da offrire – che le persone “ospitate” ricevessero protezione con standard analoghi a quelli dell’Europa.
Nonostante la diminuzione degli arrivi, la situazione dei circa 12mila richiedenti asilo bloccati sulle coste greche è rimasta grave sia per le pessime condizioni di vita nei centri di accoglienza improvvisati che per i numerosi attacchi da parte di gruppi locali legati all’estrema destra.
Oltre all’accordo con Ankara, rivelatosi fragile, l’Europa ha scelto di fermare l’arrivo di persone anche con la chiusura della rotta balcanica, e la Macedonia è stata persuasa a sbarrare le frontiere.
Tutti questi elementi hanno decretato il fallimento del programma di ricollocazione dell’Unione Europea che era stato adottato dai capi di stato dei paesi membri nel settembre del 2015, allo scopo di distribuire le responsabilità dell’accoglienza. Anche l’idea di un approccio hotspot è venuta meno: il piano prevedeva la realizzazione di centri di registrazione in Italia e Grecia, nei punti di approdo, dove registrare le persone per poi valutarne il trasferimento in altri paesi Ue o il rimpatrio. Di fatto i due paesi del Mediterraneo sono stati lasciati soli ad affrontare il fenomeno migratorio, mentre la spinta a rimpatriare il maggior numero di migranti possibile è diventata un elemento chiave della politica estera europea, che ha spinto l’Ue a sottoscrivere anche un accordo con l’Afghanistan, il Joint Way Forward, per collaborare al rientro dei richiedenti asilo respinti.
Anche paesi che in passato si erano dimostrati più generosi, hanno stretto le maglie dell’accoglienza: Finlandia, Svezia, Danimarca e Norvegia hanno introdotto norme per limitare o ritardare anche le pratiche di ricongiungimento familiare. I paesi più vicini alle frontiere dell’Unione Europea sono stati quelli che hanno intrapreso le misure più drastiche: l’Austria ha ora una legge che autorizza il governo a dichiarare lo stato di emergenza in caso di massicci arrivi di richiedenti asilo, mentre l’Ungheria ha deciso di costruire una recinzione lungo il confine con la Serbia, oltre ad attivare una serie di misure che hanno provocato violenti respingimenti e detenzioni illegali. In Francia, lo sgombero del campo di Calais è diventato un altro simbolo di un sistema di accoglienza complessivamente fallimentare.
Gli attacchi terroristici in Francia, Belgio e Germania – e ora Inghilterra – hanno cambiato il paradigma della sicurezza, e rimesso in discussione i confini fra il potere centrale e i diritti delle persone. Il ricorso allo stato di emergenza è diventato più facile: l’Ungheria ha fatto da apripista, con l’adozione di una normativa che consente severe restrizioni alla libertà di movimento e di riunione, oltre al congelamento dei beni senza controllo giudiziario. La Bulgaria sta seguendo la stessa strada, e pure la Francia, nel dicembre scorso, ha prolungato lo stato di emergenza per la quinta volta, oltre a reintrodurre, dopo Nizza, le perquisizioni nelle abitazioni senza preventiva approvazione giudiziaria, oltre a nuove possibilità di vietare le manifestazioni per motivi di sicurezza.
In Slovacchia e Polonia misure prima eccezionali come il prolungamento della detenzione preventiva per i sospettati di terrorismo, sono state incorporate nel diritto penale ordinario. Centinaia di persone sono state perseguite, in particolare in Francia, per il reato di giustificazione del terrorismo a causa di commenti pubblicati su social network.
Amnesty riporta esempi di discriminazione in Europa nei confronti di migranti e in particolare di musulmani, anche da parte della polizia, in virtù di nuovi poteri antiterrorismo, ma anche durante le normali operazioni di controllo e mantenimento dell’ordine pubblico. Le iniziative per combattere l’estremismo di matrice islamica hanno finito con l’isolare le comunità musulmane e limitarne la libertà di espressione: Bulgaria e Svizzera hanno ad esempio adottato norme che vietano l’uso del velo integrale in pubblico, e in Francia molti comuni della costa, la scorsa estate, avevano tentato di proibire il burkini.
In Germania sono aumentati gli attacchi contro i centri di accoglienza per richiedenti asilo, e nel Regno Unito i crimini d’odio sono aumentati del 14% soltanto nei tre mesi successivi al referendum sulla Brexit.
L’Italia e il fallimento dell’approccio hotspot
Nel corso del 2016, 181mila persone hanno raggiunto l’Italia attraversando il Mediterraneo; almeno 4.500 sono morte in mare. Gran parte dei migranti sono partiti dalla Libia e sono stati salvati dalla Guardia Costiera, dalla Marina Militare, da navi mercantili o imbarcazioni delle Ong.
Il numero dei minori non accompagnati, 25.700, è raddoppiato rispetto al 2015.
Nell’applicazione dell’approccio hotspot europeo per identificare e separare i rifugiati dai presunti migranti irregolari, sono stati spesso registrati un uso eccessivo della forza, detenzioni arbitrarie ed espulsioni collettive. I cittadini dei paesi con cui l’Italia ha negoziato accordi di rimpatrio hanno continuato ad essere rinviati forzatamente nei paesi d’origine, sollevando il timore, secondo quanto riporta Amnesty International, che non abbiano avuto accesso adeguato ad una procedura di asilo, senza una valutazione dei rischi potenziali. Il 24 agosto scorso un gruppo di 40 cittadini sudanesi è stato rimpatriato, nonostante fra loro ci fossero persone che avevano subito violenze in Darfur, e rischiassero nuovi abusi nel paese di provenienza.
La redistribuzione dei richiedenti asilo sul territorio italiano ha incontrato l’opposizione di alcune amministrazioni locali e di residenti. In diverse città sono state organizzate proteste cavalcate da gruppi di estrema destra come dal partito della Lega Nord. Non essendosi concretizzato a livello europeo il programma di ricollocazione, soltanto meno di 3 mila persone rispetto alle 40 mila previste hanno lasciato l’Italia per un altro paese dell’Unione.
La Turchia, l’altro versante dell’accordo con l’Ue
Il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016 ha scatenato una repressione su larga scala nei confronti di dipendenti pubblici e società civile, principalmente fra soggetti accusati di legami con il movimento di Fethullah Gülen: nei sei mesi di stato di emergenza, oltre 40 mila persone sono state tenute in custodia cautelare, e sono state documentate prove di tortura su detenuti ritenuti legati al colpo di stato. Centinaia di organi d’informazione e 375 Ong sono stati chiusi con decreti esecutivi, 90mila dipendenti pubblici hanno perso il lavoro. La libertà di espressione è sempre più limitata, e chi ha espresso il dissenso, è stato minacciato di violenza e azioni penali; anche la censura in rete è aumentata, e sono stati emessi ordini approvati dalla magistratura, per bloccare siti web e account di social network.
Le violazioni dei diritti umani più gravi si sono registrate nel sud-est del paese a maggioranza curda, dove gli abitanti delle città hanno subito il coprifuoco 24 ore su 24, e fino a mezzo milione di persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Gli scontri armati con il Pkk sono andati avanti, e in 53 comuni curdi il governo ha sostituito i sindaci eletti con amministratori di sua fiducia. Le autorità hanno anche bloccato una missione conoscitiva delle Nazioni Unite nel sud est della Turchia e impedito a numerose Ong, fra cui Amnesty, di documentare le violazioni dei diritti umani sul territorio.
Per tutto il 2016, il presidente Erdoğan ha consolidato il suo potere, finché a dicembre sono state presentate al parlamento alcune modifiche costituzionali volte a garantirgli più poteri esecutivi. In politica estera, la Turchia ha lanciato prima un intervento militare nel nord della Siria, contro lo l’Isis ma anche le Forze di difesa del popolo curdo Hpg, affiliati del Pkk, e poi in Iraq, nell’area di Mossul, dove è presente con una base a Bashiqa.
La Turchia è stato il principale paese del mondo ad ospitare il più alto numero di rifugiati e richiedenti asilo: si stima che sul suo territorio risiedano tre milioni di cittadini stranieri, in prevalenza siriani (2,75 milioni), oltre ad iracheni e afghani. L’accordo siglato lo scorso anno con l’Europa ha previsto il rinvio di altre persone, ma non ha tenuto conto delle carenze del sistema di protezione del paese. Nonostante alcuni miglioramenti la maggior parte dei rifugiati siriani minori non ha accesso all’istruzione, e la maggior parte degli adulti resta fuori dal circuito legale dell’occupazione.
L’India, discriminazioni per casta
Anche l’India sta manifestando seri problemi in fatto di restrizioni alla libertà di espressione. Difensori dei diritti umani continuano a subire minacce e vessazioni, nonostante migliaia di persone scendano in piazza contro le discriminazioni. Nell’ottica di una crescita economica da portare avanti a qualsiasi costo, il governo ha continuato a ignorare i diritti delle comunità emarginate. Diversi gruppi armati nell’India Centrale come pure negli stati del nord, imperversano con estorsioni, sequestri e uccisioni, spesso di funzionari governativi. Si stima che anche i minori vengano arruolati nelle fila di queste organizzazioni. La discriminazione sulla base delle caste di appartenenza resta all’ordine del giorno, e i dalit, sul gradino più basso della scala sociale, continuano a subire violenze diffuse: nel 2015 sono stati denunciati 45 mila casi di reati contro membri di caste registrate.
Le violenze da parte delle forze di polizia continuano ad essere diffuse nonostante la Corte suprema abbia stabilito che il personale in divisa non debba godere della totale immunità. Un anno fa, un tribunale dell’Ufficio Centrale d’inchiesta ha condannato 47 agenti per l’esecuzione extragiudiziale di 10 uomini, avvenuta nel 1991 nell’Uttar Pradesh, ma durante il 2016 sono emerse nuove accuse si casi recenti.
Il governo cerca di limitare le attività delle Ong, ricorrendo alla legge sulla regolamentazione dei contributi provenienti dall’estero, che complica la possibilità di ricevere finanziamenti. Inoltre si continua a rischiare l’arresto per aver scandito slogan contro le autorità, o aver scritto su Facebook commenti considerati anti-nazionali.
Gli Usa e l’incognita Trump: la retorica discriminatoria si fa legge
Dal punto di vista politico sociale, l’elezione alla presidenza Usa di Donald Trump ha fatto temere una deriva misogina e xenofoba, a causa delle dichiarazioni controverse espresse in campagna elettorale, e dei primi provvedimenti restrittivi emanati dopo il voto. La retorica della nuova Casa Bianca riflette una tendenza globale verso politiche securitarie e discriminatorie che cavalcano paure e insicurezza dell’elettorato. D’altronde, come sottolinea il Rapporto Amnesty, il predecessore Obama lascia molti fallimenti in campo di tutela dei diritti umani, come l’espansione della campagna segreta della Cia di attacchi con droni, e lo sviluppo di una macchina per la sorveglianza di massa, rivelato dall’informatore Edward Snowden.
A fine 2016, quasi otto anni dopo la presa in carico, da parte dell’ex presidente, della chiusura del carcere di Guantanamo, 59 uomini erano ancora detenuti nella base, la maggioranza dei quali senza essere stati processati né talvolta aver ricevuto accuse formali. Durante lo scorso anno, 48 prigionieri sono stati invece trasferiti e consegnati alle autorità di Arabia Saudita, Bosnia ed Erzegovina, Capo Verde, Emirati Arabi Uniti, Ghana, Italia, Kuwait, Mauritania, Montenegro, Oman, Senegal, Serbia.
Almeno mille persone sono state uccise per mano delle forze di polizia, sul territorio statunitense, in particolare cittadini afroamericani, solo nello scorso anno, ma a tutt’oggi non esiste ancora un programma di tracciabilità di queste morti, nonostante le dichiarazioni di intenti del Dipartimento di Giustizia. Molte sono state le manifestazioni di protesta contro l’eccesso di forza praticato dalla polizia, in Minnesota, Louisiana, North Carolina, Oklahoma.
In fatto di immigrazione, almeno 42 mila minori non accompagnati e 56 mila persone, comprese intere famiglie, sono state fermate ed arrestate mentre attraversavano il confine meridionale. Spesso questi cittadini sono stati trattenuti senza un adeguato accesso all’assistenza medica e legale, in alcuni casi per oltre un anno. Alcuni paesi hanno presentato proposte legislative per impedire ai rifugiati regolari di abitare all’interno del proprio territorio: a settembre il Texas ha annunciato il suo ritiro dal programma federale di reinsediamento dei rifugiati, per presunte ragioni di sicurezza. Il Kansas e il New Jersey ne hanno seguito l’esempio.
Il neo presidente ha già messo in campo una serie di misure che stanno facendo discutere, cavalcando proprio l’esigenza di protezione dei confini e di sicurezza. Appena cinque giorni dopo l’insediamento, il 25 gennaio scorso, Trump ha firmato due decreti: il primo per il via libera alla costruzione di un muro al confine meridionale con il Messico per prevenire l’immigrazione illegale e il traffico di droga, e l’altro contro le cosiddette sanctuary cities, città che in base alle leggi locali o a scelte politiche delle amministrazioni, proteggono i migranti senza documenti non applicando le leggi federali che ne prevedono l’espulsone, come New York, Chicago, Los Angeles e Washington.
Due giorni dopo ha sospeso per 120 giorni l’accoglienza dei rifugiati e ha limitato l’ingresso dei cittadini provenienti da sette paesi a maggioranza islamica: Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen, per poi ritirare l’Iraq dalla lista. Un ordine esecutivo rinominato muslim ban, altamente discriminatorio e contestato pubblicamente da UNHCR e OIM, Organizzazione per le migrazioni, oltre che dai cittadini statunitensi e non, che hanno manifestato negli aeroporti.
Il Dipartimento per la sicurezza domestica, pochi giorni fa, ha messo al bando i dispositivi elettronici in cabina per i passeggeri in volo verso gli Usa da Giordania, Egitto, Turchia, Arabia saudita, Kuwait, Qatar, Emirati e Marocco. L’ennesimo provvedimento a base discriminatoria, mascherato da necessità di protezione del proprio territorio, che ha già trovato seguito anche nel Regno Unito.