Da Reset-Dialogues on Civilizations
Tadeusz Mazowiecki non è più in questo mondo. Il primo premier non comunista dell’Europa dell’Est è morto a Varsavia, a 87 anni, il 28 ottobre.
Aveva guidato per 14 mesi, dall’agosto 1989 al gennaio 1991, l’esecutivo che a colpi di riforme radicali portò la Polonia, rapidissimamente, dalla pianificazione al libero mercato.
Una terapia d’urto, quella, che creò un cataclisma sociale (disoccupazione di massa, inflazione astronomica), ma che oggi viene ritenuta una scelta inevitabile. Se la Polonia funziona – si dice spesso – lo si deve anche a quegli immensi sacrifici.
Quel viaggio a Danzica
Mazowiecki, come molti altri esponenti dell’ala moderata di Solidarnosc che nell’89 negoziarono la transizione con il regime, preferendo un’uscita morbida dal comunismo piuttosto che lo scontro frontale, è stato protagonista di un grande paradosso. Ha cambiato la storia, ma ha smesso quasi subito dopo i panni da protagonista.
Dopo il premierato rimase a battagliare in parlamento, fondando e rifondando partiti di stampo liberale, che facessero da ago della bilancia. Si unirono ai suoi sforzi, poco premiati a livello elettorale, altri due raffinati intellettuali – Tadeusz Mazowiecki era prima di tutto un intellettuale cattolico – che contribuirono immensamente alla costruzione della Polonia democratica: Jacek Kuron e Bronislaw Geremek. L’uno scomparso nel 2004; l’altro, eccellente ministro degli esteri dal 1997 al 2000, nel 2008.
Fu proprio insieme a Geremek che da Varsavia, il 22 agosto del 1980, Mazowiecki si mise in marcia alla volta di Danzica. In auto. I due vollero andare a vedere coi propri occhi quello che d’incredibile succedeva in quei giorni sulle rive del Baltico: gli scioperi dei cantieri navali Lenin, la grinta animalesca di Walesa, la richiesta – assurda, profana – di organizzare un sindacato autonomo (FOTO: Walesa e Maziowiecki).
Quel viaggio cambierà la vita dei due e del paese. Perché lì, a Danzica, Walesa chiese loro di impegnarsi in prima persona. In quei giorni il futuro presidente polacco stava trattando con il governo e temeva che sarebbe stato ingannato con qualche trucco cinico. «Siamo semplici operai, i negoziatori comunisti sono persone abili, hanno studiato. Ci serve qualcuno che ci aiuti», fece Walesa a Geremek e Mazowiecki. Entrambi, a quel punto delle loro vite, erano apertamente critici con il regime e vedevano in Solidarnosc un grimaldello con cui cambiare il corso della storia. Decisero così di optare per la scelta partigiana, sostenendo Walesa. Tempo pochi giorni e Solidarnosc divenne una cosa vera. Seria. Il primo sindacato libero d’oltre cortina. Ma molto di più di un sindacato. Fu un movimento “risorgimentale”, che aprì la via alla democratizzazione polacca e ispirò gli altri movimenti democratici dell’Est.
Un moderato radicale
Ci furono poi la legge marziale del 1981, la messa al bando di Solidarnosc, gli arresti dei suoi uomini di punta (incluso Mazowiecki), la loro successiva scarcerazione, l’agonia del regime nel resto di quella decade, la Tavola rotonda sulla transizione e le elezioni (quasi) libere del 1989, cannibalizzate da Solidarnosc. E lì Mazowiecki fu chiamato a guidare il governo. L’esperienza durò poco e come detto ebbe ricadute sociali devastanti, creando disillusione tra tutti quei milioni di lavoratori polacchi che avevano sostenuto Solidarnosc. Si sentirono traditi. E fu anche per questo, oltre che per la spaccatura del fronte di Solidarnosc, sancita dalla rottura tra Mazowiecki e Walesa, che quel governo non visse a lungo.
Ma in 14 mesi «furono gettate le basi di uno stato sovrano e democratico, reso sicuro il confine con la Germania e introdotta la terapia d’urto», di cui Mazowiecki «si è assunto la piena responsabilità pagandone il prezzo alle urne», ha ricordato Gazeta Wyborcza, giornale diretto da Adam Michnik, altra grande personalità di Solidarnosc, concludendo che Mazowiecki è stato il miglior primo ministro che il paese abbia mai avuto. Un uomo saggio e coerente. Ebbe il coraggio, lui che per natura era un moderato, di fare riforme durissime. Ed ebbe il coraggio di dimettersi da rapporteur Onu sulle violazioni dei diritti umani in Bosnia (fu nominato nel 1992), quando capì che i caschi blu non fecero nulla per impedire alle milizie serbo-bosniache, nel 1995, ammazzare tutta quella gente a Srebrenica.
Quel varco nella cortina
Mazowiecki, strano il destino, è solo l’ultimo dei protagonisti dell’89 che sono scomparsi nei mesi appena trascorsi. Vi fu altra gente che, in quell’anno in cui tutto cambiò e nel periodo immediatamente successivo, fece cose importanti. Salvo poi uscire, più o meno presto, dal fascio di luce dei riflettori.
Uno di questi uomini è Gyula Horn. La sua morte, giunta lo scorso giugno, non ha avuto molta eco in Italia. Eppure Horn è uno degli attori chiave della fine della Guerra fredda. Nel giugno dell’89, in qualità di ministro degli esteri, tranciò assieme all’omologo austriaco Alois Mock il filo spinato lungo la frontiera tra i due paesi. L’iniziativa, pur se fu soprattutto simbolica, testimoniava che un’epoca stava finendo e confermava ulteriormente la scelta che la nuova leadership comunista magiara, che nell’88 aveva esautorato i grandi dinosauri del partito, aveva ormai intrapreso: negoziare con le opposizioni e seguire la via polacca alla transizione.
A Horn, che nell’Ungheria post-comunista è stato primo ministro (1994-1998), è stato rimproverato nel corso degli anni di aver preso parte alla repressione della rivoluzione popolare e democratica del 1956. E forse è vero che lui e gli altri comunisti riformisti che optarono per la transizione di sistema e di partito (nel 1989 nacque il Partito socialista) lo fecero solo quando ormai era chiaro che il Muro sarebbe caduto. Ma, appunto, lo fecero. Sventando tensioni e violenze. Non è cosa da poco.
Il prete hippie e il consigliere del Che
Ancor meno rimbalzi mediatici ce l’hanno avute le morti di Walter Schilling (29 gennaio) e Valtr Komarek (16 maggio). Il primo, pastore protestante e figlio di due esponenti della “chiesa confessionale”, che ai tempi del nazismo si scisse dalla chiesa luterana, controllata e addomesticata dal regime, aprì le porte della sua cappella di Saalfeld, nella Turingia, ai dissidenti della Germania Est. La Stasi, la polizia politica della Germania comunista, “scudo e spada” della Sed, il partito unico, perseguitò Schilling e tutti gli altri preti – tanti – che all’epoca accolsero pacifisti, hippie, emarginati sociali e dissidenti politici nelle loro parrocchie.
Nell’89 Schilling fu una figura importante, attiva in due momenti chiave. A maggio la Chiesa dal basso, movimento civile-religioso fondato due anni prima e di cui Schilling fu uno degli esponenti di punta, denunciò le manipolazioni alle elezioni tenutesi all’inizio del mese. Con quel voto il regime, preoccupato da quando accadeva in Polonia e dai fermenti interni, voleva rilegittimarsi. Ottenne il risultato opposto. Schilling e gli altri oppositori, gridando alla frode, decisero poi di tenere il 7 di ogni mese, a Berlino e in tutte le città del paese, manifestazioni contro la farsa elettorale. Fu l’inizio della protesta e della caduta, vertiginosa e inarrestabile, di Erich Honecker e del suo cerchio magico.
Il 7 ottobre, in occasione del quarantesimo anniversario della Ddr, la chiesa berlinese di Getsemani divenne il centro logistico della protesta. Lì si tenevano veglie per la pace, fuori si protestava contro i brogli. Il regime usò la forza contro i dimostranti, pestandone e arrestandone parecchi. Schilling, in quei giorni alla chiesa di Getsemani, fu tra gli autori di un rapporto che inchiodò il regime alle sue responsabilità, contribuendo a indebolirlo ulteriormente.
Dopo il crollo del Muro Schilling ha lavorato per tenere viva la testimonianza della battaglia civile e politica dell’opposizione tedesco-orientale. Nella sua Saalfeld, lontano dai riflettori. Là ha amministrato il culto fino al 1995, quando è andato in pensione.
Come Schilling, anche Valtr Komarek, economista ceco, ha avuto un ruolo importante nell’89, salvo poi defilarsi. Komarek, che negli anni ’60 fu consigliere economico di Che Guevara, fu uno dei membri più influenti del gruppo di intellettuali, riunito intorno a Vaclav Havel, che coordinò e portò al successo la “rivoluzione di velluto”, sancendo la fine del regime comunista, dopo Polonia, Ungheria e Germania est, anche nell’allora Cecoslovacchia. Komarek, con quei suoi capelli brizzolati e arruffati, gli occhialoni e il pizzetto, divenne una delle facce di quella rivoluzione. Quasi un logo.
Successivamente fu vice premier nel governo di transizione – comunisti e oppositori – che portò il paese alle prime elezioni libere. Fu eletto nelle file del Partito socialdemocratico, ma si ritirò ben presto dalla politica. Nel 1993, all’indomani della scissione tra Repubblica ceca e Slovacchia. Da allora non è andato troppo spesso sui giornali, né ha cercato vetrine. Un altro di quegli uomini dell’89 che fecero la storia e poi si defilarono. Ma forse era proprio questo il senso della loro missione: abbattere un sistema e crearne uno nuovo, senza cedere alla tentazione del potere.
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Nella foto: Tadeusz Mazowiecki nel 1989