Da Reset-Dialogues on Civilizations
«Sono un medico, chi curerà la mia ferita?» È questo uno degli slogan scandito dai camici bianchi più arrabbiati d’Egitto, un settore in mobilitazione per chiedere che le violenze subite da anni non restino impunite.
È per questo che da fine gennaio hanno trovato il coraggio di scendere in strada, sfidando il divieto –formale – di manifestare contro il regime e quello – meno formale, ma altrettanto rigido – di scioperare. Il tutto è scoppiato il 28 gennaio, giorno in cui un dottore dell’ospedale di Matariya si è rifiutato di trattare la ferita sulla fronte di un agente con dei punti, non ritenendola grave.
Da lì è nata una discussione degenerata poi in un’aggressione del medico da parte del poliziotto. L’agente, che ha estratto una pistola e minacciato il personale ospedaliero, ha poi chiamato i rinforzi dalla vicina stazione di polizia. Secondo alcuni testimoni oculari, gli agenti hanno trascinato il medico fuori dall’ospedale, dove un poliziotto ha premuto con forza il suo stivale sulla testa del dottore, scaraventandolo a terra.
Il 10 febbraio, il procuratore generale egiziano ha disposto che tutti gli agenti coinvolti fossero sottoposti a interrogatorio, ma il giorno successivo ha revocato ogni accusa nei loro confronti. Ed è in questo momento che i medici hanno sentito il dovere di reagire, anche perché questo caso non è di certo il primo del genere, ma l’impunità è stata troppo evidente.
Quella in corsa è una battaglia di professionisti contro potere. Medici contro quei poliziotti – tanti – che sono protetti da una sostanziale impunità. Antica e già messa a nudo dal casus belli che fu la miccia della rivoluzione del 2011, il pestaggio e l’uccisione del giovane cibernauta Khaled Said da parte dell’ennesima coppia di poliziotti. Ecco perché il ministro che finisce sul banco degli imputati non è quello della sanità, ma quello degli interni, responsabile delle forze dell’ordine. È lui il vero obiettivo degli almeno quattromila camici bianchi, sostenuti non solo da altri sindacati, ma anche da un popolo virtuale riunito attorno all’hashtag #supportdoctorssyndicate.
Del resto, quello dei medici, non è un sindacato qualsiasi, ma un’istituzione che negli anni ha sviluppato forti anticorpi contro il sistema del potere. Nato durante l’epoca del presidente Gamal Abdel Nasser, per decenni è stato dominato dal partito di regime che nel 1980 è stato scalzato dalla Fratellanza Musulmana. A dirigere il sindacato sono stati per oltre trent’anni i rappresentanti di questo movimento islamista ufficialmente confinato alla clandestinità. Quando la Fratellanza, dopo la rivoluzione del 2011, è diventata forza di governo, gli anticorpi del sindacato contro il sistema del potere lo hanno però sottratto alle mani della Confraternita che ne ha di fatto perso il controllo, finito nelle mani degli attivisti di sinistra.
La nuova leadership aveva già organizzato delle proteste nel 2014, quando i medici avevano chiesto salari più alti e migliori servizi per i pazienti. Ma gli scioperi di quest’anno non sono scoppiati all’insegna delle rivendicazioni sociali. Proprio come avvenne per la rivoluzione di Piazza Tahrir, piuttosto, alla base delle sommosse di questi mesi c’è la richiesta di rispetto, dignità e riscatto. È anche questo a spaventare il regime che sta facendo il possibile per contenere il malcontento con il vecchio stratagemma del bastone e della carota. Se da un lato, a febbraio il presidente Abdel Fattah Al-Sisi ha promesso una legge per punire le brutalità della polizia, dall’altro il regime continua a fare il possibile per impedire lo svolgimento di assemblee sindacali.
I medici che hanno cercato un posto dove riunirsi per decidere come indirizzare il loro malcontento si sono visti sbattere diverse porte in faccia e l’assemblea si è infine svolta nelle diverse stanze del sindacato, dove i dottori si sono stipati davanti a televisori per seguire i discorsi di quanti parlavano dalla sala principale.
Il prossimo appuntamento è fissato per il 25 marzo. Se entro quel giorno il governo non avrà risposto alle loro richieste, i dottori minacciano di dimettersi. L’out-out dei camici bianchi è in realtà la cartina tornasole di un’insofferenza più ampia che coinvolge buona parte di quegli egiziani pronti, ancora una volta, a rompere il velo della paura per opporsi al regime. In primis il suo vertice, che, come successe anni fa ad Hosni Mubarak, inizia a essere vittima di satira tagliente. L’esempio più lampante l’ha fornito un’inedita asta di eBay nella quale è stato messo sul mercato proprio Al-Sisi, il presidente che ha detto difronte alle telecamere di essere pronto a mettersi in vendita per il bene dell’Egitto. L’asta è stata prontamente rimossa da chi di dovere, ma la goliardata, impensabile un anno fa, è un indicatore dell’acqua che bolle in pentola nel Paese. E della sua temperatura.
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