Il primo commento è arrivato dal carcere di Evin, a Teheran: “Questo riconoscimento globale al mio lavoro per i diritti umani mi rende ancora più risoluta, responsabile, più appassionata e piena di speranza”, ha dichiarato Narges Mohammadi, appena insignita del Premio Nobel per la pace. “Spero anche che questo riconoscimento renderà più forte la protesta di tutti gli iraniani”, ha aggiunto. Con lei il Comitato norvegese del Nobel premia una straordinaria attivista che ha dedicato molto della sua vita alla battaglia per i diritti civili nel suo Paese, ed estende un riconoscimento a tutte le donne che in Iran si battono per i diritti e le libertà: “Per la sua lotta contro l’oppressione delle donne nel Paese e la sua lotta per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti”, scandisce la motivazione del Nobel.
La prima (e per ora unica) dichiarazione di Narges Mohammadi è arrivata per iscritto al New York Times da Evin – il quotidiano newyorkese aveva intervistato Mohammadi ad aprile e maggio scorso, con messaggi scritti e a volte al telefono, e ne aveva tracciato un ampio ritratto lo scorso giugno.
La voce di Mohammadi è uscita diverse volte dalle mura del carcere in cui è detenuta. In particolare nell’ultimo anno. Per sostenere le proteste di cui è arrivata l’eco anche alle detenute, ha contribuito a organizzare atti di disobbedienza collettiva, proteste sonore – come quando via telefonino abbiamo sentito la versione iraniana di Bella Ciao cantata dalle detenute. Ha tenuto seminari per le altre recluse sui diritti umani; a dicembre ha diffuso un rapporto sugli abusi fisici e sessuali subiti dalle detenute, sulla base delle testimonianze da lei raccolte. Prima aveva scritto un libro sull’impatto emotivo del regime di isolamento, anche questo con le testimonianze raccolte in carcere. Ha mandato all’esterno denunce e articoli. A maggio le era stato revocato il diritto alle telefonate dopo che aveva pubblicato su Instagram una condanna delle violazioni dei diritti umani in carcere. Insomma, la detenzione non ha interrotto la sua ostinata battaglia, e già questo dice molto su chi è la nuova Nobel per la pace.
Nata nel 1972 a Zanjan, nell’Iran centrale, Narges Mohammadi aveva pochi anni quando una rivoluzione di popolo ha rovesciato la monarchia dei Palhavi. Appartiene dunque a una generazione cresciuta con la Repubblica islamica, figlia di quelle che avevano partecipato con entusiasmo alla rivoluzione per poi vedersi rinchiudere in una gabbia di veli e proibizioni: e hanno ben presto cominciato a dare battaglia per riaprire spazi di libertà per le donne, e per tutti. Mohammadi ha spesso raccontato che nella sua famiglia l’attivismo politico era di casa. Il suo impegno è emerso durante l’università, frequentata a Qazvin, città a nord-ovest di Teheran, dove ha studiato fisica nucleare – e fondato un collettivo di studenti. Negli anni dell’università ha anche frequentato i seminari su politica e società civile tenuti un docente universitario e intellettuale piuttosto noto nei circoli critici, Taghi Rahmani, che nel 2001 è diventato suo marito.
La coppia si è stabilita a Teheran, dove entrambi hanno continuato a lavorare in organizzazioni di società civile. Dal matrimonio sono nati due gemelli, ma la famiglia ha potuto vivere insieme ben poco. Infatti lui è stato arrestato quasi subito, ha trascorso due anni di carcerazione preventiva prima che fossero formulate delle accuse nei suoi confronti, poi ha subito altri arresti – sempre per i suoi scritti critici verso il sistema politico. Anche per questo lei ha cominciato a occuparsi della condizione dei detenuti, in particolare detenuti per reati d’opinione spesso incarcerati in modo arbitrario, senza conoscere le accuse, senza accesso a un difensore di propria scelta, o senza conoscere le prove a proprio carico. Del resto lei stessa ha cominciato a entrare e uscire dal carcere.
Negli ultimi trent’anni dunque Narges Mohammadi è stata tra le figure più attive dell’attivismo della società civile. In quegli anni (era durante la presidenza del riformista Mohammad Khatami) l’Iran viveva un momento di grandi aperture interne, la prima fioritura di giornali e di associazionismo indipendenti – ma anche di grande scontro interno con i settori più oltranzisti del sistema istituzionale, proprio sul terreno delle libertà e dei diritti. Mohammadi ha lavorato con il Centro dei difensori dei diritti umani, creato da un gruppo di avvocati tra cui Shirin Ebadi, lei stessa insignita del Nobel per la pace nel 2003 – insieme ad altre figure di grande coraggio come Nasrin Sotudeh, anche lei avvocata che ha subito lunghi anni di detenzione e persecuzione giudiziaria. Una delle sue campagne è quella contro la pena di morte. Il Centro dei difensori dei diritti umani è stato chiuso con un atto arbitrario dalla magistratura nel dicembre 2008, la sede sgomberata da agenti di sicurezza, durante la stretta repressiva voluta dall’allora presidente Mahmoud Ahmadi Nejad; Ebadi è uscita dal Paese poco dopo e vive da allora in esilio. Più o meno in quel periodo Narges Mohammadi ha perso il suo lavoro di ingegnere, licenziata dall’ente per i lavori pubblici (sotto la pressione del governo, pare).
Momenti di relativa distensione e di avvitamento repressivo hanno continuato ad alternarsi, in Iran; il lavoro degli attivisti per i diritti umani però non è mai stato facile. Ma certo le fasi di isolamento internazionale di Teheran – come quella cominciata quando l’allora presidente Usa Donald Trump ha revocato l’adesione all’accordo sul programma nucleare iraniano (che Teheran aveva fino ad allora rispettato) – sono anche quelle in cui si rafforzano hanno le correnti più estreme della Repubblica islamica.
Narges Mohammadi è stata arrestata tredici volte e condannata cinque. Ora sta scontando una condanna a dieci anni, per attentato alle istituzioni dello Stato e alla sicurezza nazionale. Di recente altre accuse sono state mosse contro di lei, che potrebbero portare a nuove condanne. Intanto Taghi Rahmani vive in esilio a Parigi con i figli Ali e Kiana, ormai sedicenni. La madre non li vede di persona da otto anni; parla con loro al telefono, o in videochiamate nei rari momenti in cui è libera.
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Narges Mohammadi aveva ricevuto altri riconoscimenti in passato per il suo lavoro di difesa dei diritti umani. Il primo è quello tributato dalla Fondazione Alex Langer nel 2009, che aveva così voluto riconoscere l’esistenza di “un altro Iran”: allora Mohammadi era parte di uno schieramento di scrittori, artisti, attivisti sociali che si battevano contro la logica della repressione, ma si dichiaravano contrari alle minacce di azione militare contro l’Iran, che avrebbero aggravato ancor più la situazione dei diritti umani nel paese. Più di recente, all’inizio di quest’anno sono arrivati per Mohammadi il premio “Liberi di scrivere” del Pen America e un riconoscimento delle Nazioni unite, il World Press Freedom Award.
Il governo iraniano ha commentato in modo ostile la notizia del Nobel a Mohammadi: “Il Comitato per il Nobel ha agito in linea con la politica intervenzionista e anti-iraniana di alcuni governi europei”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri di Teheran: “Ha premiato una persona condannata per ripetute violazioni della legge e atti criminali, e noi respingiamo questo gesto politicamente motivato”. Una reazione che non stupisce, il governo iraniano non gradisce critiche e ha sempre respinto ogni addebito (“ingerenza”) sui diritti umani – anche il Nobel a Shirin Ebadi vent’anni fa aveva raccolto commenti acidi dalle autorità di Teheran.
Del resto, è vero che l’intenzione del Comitato norvegese del Nobel è esplicita: attraverso Narges Mohammadi ha voluto dare un riconoscimento all’intero movimento di protesta che ha segnato l’Iran nell’ultimo anno. Lo ha detto la presidente Berit Reiss-Andersen nel dare l’annuncio, quando ha pronunciato le parole zan, zendegi, azadi, donna, vita, libertà. È lo slogan diventato il simbolo delle proteste scoppiate dopo la morte della giovane Mahsa Jina Amini in custodia della “polizia morale” nel settembre del 2022. “Il più ampio movimento politico di protesta dalla Rivoluzione del 1979”, osserva il Comitato del Nobel per bocca della sua presidente, che ha aggiunto: donna, vita, libertà “esprime in modo efficace il lavoro e la dedizione di Narges Mohammadi”. Anche Taghi Rahmani ha voluto sottolineare che il Nobel a sua moglie è un riconoscimento alla sua vita di decenni ma anche “a tutti gli attivisti per i diritti umani che lottano per il cambiamento in Iran”.
Dall’interno dell’Iran altri commenti trapelano, entusiasti. Uno per tutti: “Non riesco a pensare a una persona che meriti di ricevere il Nobel più di Narges Mohammadi… per il suo lavoro in difesa dei diritti umani e dei detenuti politici”, si legge in un post del professor Sadegh Zibakalam (di recente sollevato dagli incarichi all’Università di Teheran a causa delle sue analisi critiche sul sistema politico iraniano). Qualcuno sottolinea inoltre con sollievo quanto sia importante che questo riconoscimento sia andato a chi si batte all’interno dell’Iran, piuttosto che alle numerose figure della diaspora che si sono presentate come leader di un movimento che invece è cresciuto e maturato all’interno del paese.
Molte attiviste in Iran, della generazione di Mohammadi e anche più giovani, commentano che nell’ultimo anno si è compiuta una rivoluzione in Iran. O meglio, è divenuta visibile una rivoluzione sociale e culturale profonda avvenuta negli ultimi decenni. Le proteste dell’ultimo anno hanno coinvolto soprattutto giovani e giovanissimi, a cui le norme di comportamento del regime islamico stanno strette. “Ma dietro di loro ci sono madri e padri che hanno lavorato per riconquistare lo spazio pubblico e conquistare diritti”, commentava di recente una nota femminista e sociologa.
Perfino l’establishment politico appare spaccato al suo interno: il mese scorso è stata annunciata una nuova legge che inasprisce le sanzioni per le donne che non rispettano le norme dell’abbigliamento islamico; già a luglio era stato annunciato che le squadre della “guida morale” (la cosiddetta polizia morale) sarebbero tornate in azione. La realtà è che per le strade si vedono ben poco, mentre le teste femminili scoperte sono frequenti e pochi osano obiettare. Nulla è scontato, la repressione è forte e così la censura. Eppure neanche l’amministrazione più retriva degli ultimi quarant’anni riesce a fermare una rivoluzione culturale e sociale inarrestabile, e una domanda di libertà ormai diffusa. Grazie anche a persone come Narges Mohammadi, e tante attiviste (e attivisti) insieme a lei, che hanno aperto una strada e continuano a battersi per tenerla aperta.
Il Premio Nobel per la Pace viene assegnato, secondo la volontà dell’inventore e industriale svedese Alfred Nobel, alla “persona che avrà svolto il maggior o il miglior lavoro per la fratellanza tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti e per l’organizzazione e la promozione di congressi di pace”. Nel corso degli anni, tra i vincitori passati ci sono stati: Ales Bialiatski (2022); Maria Ressa and Dmitry Muratov (2021); World Food Program (2020); Abiy Ahmed Ali (2019); Denis Mukwege and Nadia Murad (2018); Juan Manuel Santos (2016); National Dialogue Quartet (2015); Kailash Satyarthi and Malala Yousafzai (2014); Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Gbowee and Tawakkol Karman (2011); Aung San Su Kyi (1991).
Immagine di copertina: il ritratto di Narges Mohammadi a Teheran, il 4 febbraio 2021. Foto di Reihane Taravati / Middle East Images via AFP).
Purtroppo la polizia morale è tornata e fa nuove vittime.
https://www.lastampa.it/esteri/2023/10/10/video/abbiamo_ucciso_armita_garawand_se_lo_meritava_lammissione_choc_della_funzionaria_della_polizia_morale_iraniana-13775588/?ref=nl-rep-a-bgr
E in Iran, venti anni dopo il Nobel a Ebadi, Narges Mihammadsi riceve il premio Nobel per la pace in carcere. La strada purtroppo sembra essere ancora molto in salita