Articolo uscito su La Repubblica del 30 settembre 2015
Scorrettezza politica senza frontiere, ha fatto addestramento negli Stati Uniti dai tempi di Reagan, ha traversato l’Atlantico, ora imperversa anche a Parigi e oltre, sul globo. Le due parole del suo avversario, il “politically correct”, come insulto, sono una brillante invenzione della destra americana, sviluppata a metà degli anni Ottanta per demolire la cultura liberal. L’invenzione è stata applicata per prendere il sopravvento linguistico sugli scrupoli “progressisti” nei confronti delle minoranze. Lo scrisse già la stampa inglese tanto tempo fa, prima che l’idea dilagasse per l’Europa e in tutto il mondo. La “political correctness” è un’arma offensiva che serve per alzare un po’ il tono e l’immagine di chi vorrebbe continuare a usare liberamente il vecchio vocabolario “politicamente scorretto” e continuare a dire e scrivere: subnormali o minorati, froci o checche, zoppi o sordi o ciechi o variamente menomati, e negri, senza imbarcarsi in un complicato galateo, di disabili o diversamente abili, non vedenti, gay, afro-americani ecc. Si tratta di quello stesso codice interiore che inibisce (dovrebbe) dal raccontare barzellette sugli ebrei o, mettiamo, anche sui belgi e sui cuneesi e sui connaturati vizi loro attribuiti dalla disinibita Weltanschauung politicamente scorretta. C’è chi ancora non ha capito per quale ragione certe battute su un popolo o una categoria di persone sono eleganti solo in bocca a chi vi appartiene per un elementare principio di rispetto e buona educazione. E qualche cosa di più: una satira spietata contro rabbini e ortodossi, come quelle che Woody Allen mette nei suoi film, è immaginabile nell’opera di un cristiano tedesco? o italiano?
Nella correttezza in generale c’è qualche cosa di ovvio, sano, anche se forse noioso. E anche un freno moralmente apprezzabile alla professione di egoismo e alla tentazione di dare via libera agli istinti xenofobi, etnocentrici, egoistici. Ci sono stati poi gli eccessi accademici, sempre americani, del “politicamente corretto” che hanno alimentato l’uso dell’espressione come insulto ed è subito apparso che la scommessa su questa forma di attacco era un buon investimento: modi popolari e tradizione contro i vezzi “radical-chic” di una élite “lontana” dal popolo che pretendeva di chiamare le “uova di Pasqua” “sfere di primavera”, o di cambiare l’espressione “a.C.” (“avanti Cristo”) in “prima dell’Era comune”.
Battaglie del linguaggio. Il risultato strabiliante è che l’insulto ha cominciato a funzionare anche dove la “correttezza politica” era rimasta una cosa sconosciuta, e dove ancora di più lo erano i suoi eccessi. Echi di una vita quotidiana multiculturale e multireligiosa arrivavano in una Europa dove ancora di recente (2011) la Corte dei diritti, in secondo grado, respingeva la richiesta di togliere il crocefisso dalle scuole pubbliche in Italia. C’è da dubitare che possa farlo ancora tra venti anni, e forse anche meno, davanti a nuovi ricorsi, a causa dei mutamenti in atto – i grandi flussi migratori e l’emergenza profughi, il ricambio della popolazione – che sono una delle ragioni che continueranno a far discutere di “correttezza politica”, usi e abusi. Ammoniscono saggi intellettuali liberal (dunque sospetti di PC) americani, come per esempio Martha Nussbaum: fino a quando, amici europei, continuerete a pensare che tutto questo non riguardi anche voi?
Le polemiche divampano in Francia, di fronte al fatto che un gruppo di intellettuali laici e, in qualche caso, provenienti dalla sinistra, prende posizione contro il pluralismo culturale e il multiculturalismo, in nome di una difesa del “sovranismo” nazionale, contro l’euro, l’Europa, l’Unione e le sue politiche. L’attacco si è spinto molto in là nel chiamare a raccolta le forze per trovare il “coraggio” – parola molto esibita nei loro libri da Pascal Bruckner, Caroline Fourester, Alain Finkielkraut – di dire di no a una politica di “accoglienza” generosa come quella di cui parlano Hollande e la Merkel, per tacere del Papa. Si tratta del “coraggio”, dunque, di alzare muri, e insieme ai muri i valori dell’identità e dell’interesse della nazione sovrana, nei confronti di una pressione esterna e minacciosa. Gli avversari di questi attacchi sono generalmente accusati, per converso, di viltà. Il confronto si fa dunque muscolare.
Bruckner vuole sottrarre il suo paese dall’ondata di emozione suscitata dalle immagini dei rifugiati che affogano nel Mediterraneo. È lo stesso punto di partenza del ragionamento di Michel Onfray, il noto autore di bestsellers come il Trattato di ateologia, e di Illuminismo estremo, militante anti-cristiano e anti-islamico. Anche lui non vuole che ci lasciamo incantare dall’immagine del cadavere del piccolo curdo Aylan tra le braccia del poliziotto su una spiaggia turca e chiede di mantenere lo sguardo puntato sulle malefatte di una politica che ha deluso in tutti i suoi reparti. Onfray respinge l’accusa di essere passato armi e bagagli con Marine Le Pen, “non è la mia tazza da te”, ma poi di fatto ne accredita generosamente la figura, perché ha saputo rigettare la cultura del padre, e soprattutto ne riconosce il merito principale: aver raccolto i frutti degli errori di una sinistra che ha buttato il proletariato nel fosso preferendogli i “bobos” radical-chic. Ma se rifiuta di apparire un alleato organico del Front National, Onfray non attenua per niente, come gli altri philosophes di questo gruppo, l’idea di abbandonare il progetto europeo, una aspirazione che accomuna in tutta Europa partiti localisti, xenofobi, populisti, e una parte della sinistra radicale.
La combinata populista dell’attacco alla correttezza politica non è oggi solo americana ed europea, viaggia attraverso i confini e a leggere, per esempio, le polemiche di questi giorni in India, si ripresenta lì con gli stessi ingredienti: le minoranze e le differenze – caste e poi anche qui i musulmani –, le politiche di sostegno alle componenti svantaggiate sono il tema sollevato dai liberal, mentre la maggioranza hindu, racconta in un editoriale lo scrittore Musul Kesavan sul sito NDTV, della destra del governo di Narendra Modi ha imparato ad abbandonare gli eufemismi: “c’è una nuova virilità nel linguaggio” che mette al bando la “correttezza”. Nel nome della schiettezza e del rifiuto dell’ipocrisia, si affaccia la ribalda retorica delle maggioranze che si presentano – gioco di prestigio – come vittime, come voci “fuori del coro”. Uno degli autori di culto della critica della political correctness, l’australiano Robert Hughes (La cultura del piagnisteo, la saga del politicamente corretto, Adelphi, 1994) sosteneva che negli eccessi del PC “la destra ha trovato la manna”, anche se a sua volta essa ha una “correttezza patriottica, che serve a velare verità sgradite”, e “una strategia che promette assai peggio di qualunque cosa si possa rimproverare alla debole e circoscritta sinistra americana”. I cultori nostrani di Hughes lo hanno sempre presentato come un giocatore del “politicamente scorretto”. Al contrario era un sofisticato analista delle battaglie per il controllo del linguaggio, grazie al quale, spiegava, “i conservatori reaganiani riuscirono a far passare per marxismo strisciante ogni intervento del governo nella vita economica (eccettuati gli stanziamenti militari)” e riuscirono in una impresa linguistica ancora più clamorosa: “classificare come “di sinistra” programmi e aspirazioni normali, che in una compagine politica più sana sarebbero considerati ideologicamente neutri – un’estensione dei diritti impliciti nella Costituzione.”