Da Reset Dialogues on Civilizations
Per tutta la scorsa settimana, a Varsavia e in molte altre città della Polonia, si sono tenute manifestazioni di protesta, molto partecipate, contro Diritto e Giustizia (PiS), il partito conservatore e nazionalista che detiene la maggioranza assoluta in Parlamento e risulta in virtù di questo l’unico azionista del governo guidato da Beata Szydlo.
Le dimostrazioni sono scattate per via di tre leggi approvate di recente che limitano l’autonomia del Consiglio nazionale giudiziario (KRS), della Suprema corte (SN) e dei tribunali locali, sbilanciando gli equilibri tra i poteri dello Stato. Ieri però il presidente della repubblica Andrzej Duda ha annunciato che eserciterà il veto sulle prime due misure.
Mossa non proprio attesa, la sua. Finora Duda è stato un esecutore della volontà della maggioranza e non è riuscito a scrollarsi di dosso l’immagine di sottoposto di Jaroslaw Kaczynski, fondatore e capo del PiS, oltre che regista indiscusso del governo, benché non abbia incarichi pubblici.
Duda ha spiegato che le due norme, così come approvate, non “creano un senso di sicurezza e giustizia nel Paese”, dove è diffusa l’idea che la magistratura sia inefficiente e rappresenti una casta distante dal popolo. Non è un caso se l’unica delle tre leggi che Duda non fermerà è quella sui tribunali locali, che tocca più da vicino il rapporto tra giustizia e cittadino.
Il Parlamento ha ora due mesi di tempo per riscrivere le altre due, e a quanto pare Duda vorrà avere voce in capitolo nel processo, ben più di quella finora concessagli da Kaczynski e dal ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro, sempre più influente nel governo e nel partito. Sulla stampa di Varsavia circola anche l’ipotesi secondo cui il veto di Duda risiede sia in questa scarsa considerazione ricevuta, sia nella volontà di frenare l’ascesa di Ziobro, spostandosi al centro e mostrandosi in qualche modo sensibile alle proteste.
Presidente e ministro sono ambiziosi e relativamente giovani. Duda è classe ’72, Ziobro ’70. Entrambi, secondo diversi osservatori, mirerebbero a succedere a Jaroslaw Kaczynski. Al momento però il potere enorme di quest’ultimo non sembra in discussione. Una riprova starebbe nel fatto che i suoi parlamentari hanno votato senza obiezioni di coscienza le leggi della scorsa settimana, secondo quanto ordinato dal capo.
La prima legge riguarda il Consiglio nazionale giudiziario (KRS), l’organo di autogoverno della magistratura. Pone fine al mandato di 15 dei suoi 25 membri trasferendo il potere di designarli dalla stessa magistratura al Parlamento, con una maggioranza di 3/5. La seconda legge concerne le nomine dei presidenti e dei vice presidenti dei tribunali locali, sulle quali il ministro della Giustizia aumenta il proprio controllo. La terza infine, fa cessare il mandato degli 83 giudici della Suprema Corte (SN), il terzo grado di giudizio, a meno che il presidente della Repubblica, su indicazione del ministro della Giustizia, non disponga altrimenti. I nuovi membri saranno nominati dal Consiglio nazionale giudiziario.
Il rischio indicato da molti è che il PiS, contando sull’appoggio dei deputati del Kukiz 15, movimento che non di rado ne ha sostenuto le riforme, possa mettere definitivamente le mani sulla giustizia e archiviare una partita iniziata a fine 2015 con la disputa sul Tribunale costituzionale (TK), l’organo che vaglia le leggi del Parlamento, occupato di forza dal PiS.
Questo rischio di presa totale della giustizia non viene eliminato dal veto di Duda. Il Parlamento, a maggioranza di 3/5, può rispedire alla presidenza le leggi, senza ritocchi.
Nonostante la scelta del presidente, anche ieri molti cittadini sono scesi in piazza. Il veto è una loro vittoria, ma molti pensano che mantenere la pressione sul potere, un potere di cui non ci si fida, sia la scelta più saggia da fare. Le riforme sulla giustizia sono state viste del resto come un passaggio critico e pericoloso. Da quando il PiS è tornato a guidare il Paese, dopo le elezioni dell’ottobre del 2015, che chiusero la stagione di governo dei liberali di Donald Tusk, s i sono già contate diverse dimostrazioni di piazza, ognuna delle quali convocata sulla base di un cardine democratico ritenuto violato da una riforma del PiS. Tra queste, quelle sulla radio-tv di Stato, sul sistema scolastico e sulla sorveglianza delle comunicazioni in rete sono state quelle che più hanno fatto discutere. Mai come stavolta, però, la linea che separa la democrazia da un regime “ibrido” è stata considerata tanto sottile.
Una cosa che ha meravigliato, in questi giorni, è stata la determinazione con cui il PiS ha portato avanti le riforme, anche davanti alle proteste popolari e alle varie note di biasimo fioccate dall’estero, persino irritualmente, come quella diffusa dalla Corte costituzionale della Repubblica Ceca. Nel 2016, quando le donne polacche manifestarono contro un disegno di legge che avrebbe ridotto quasi del tutto le possibilità di abortire, in un Paese che ha già una legge molto severa in materia, Kaczynski si fermò. Questa volta no. Il punto è che la legge sull’aborto non era un obiettivo fondamentale del PiS, ma una concessione alla chiesa cattolica, con cui Kaczynski ha un rapporto strumentale, come tutti gli altri politici polacchi (se ci si fa nemica la chiesa non si governa), anche se nel suo caso c’è una disponibilità maggiore a dare. La riforma della giustizia è invece un punto irrinunciabile della sua idea di Polonia. Ma oltre che di migliorarne l’efficienza, si tratta di fare i conti con la storia. Ed è qui che si spiega il tentativo di limitare l’indipendenza dei giudici.
Per Kaczynski e molti esponenti del PiS la magistratura è il simbolo del patto scellerato contratto nel 1989 dai comunisti e dall’ala moderata di Solidarnosc, i liberali di oggi volendo semplificare. Kaczynski, che militava nell’ala dura del sindacato-partito che liberò la Polonia dal regime, pensa che la trattativa tra i comunisti e liberali, che aprì alla transizione democratica, abbia compromesso il processo di purificazione nazionale, permettendo ai comunisti di sopravvivere politicamente e lasciando così il Paese esposto all’influenza del vecchio regime, dunque dei russi. Al tempo stesso, comunisti e liberali avrebbero lasciato che il Paese si piegasse a un’altra potente forza esterna, il mercato, del quale avrebbero congiuntamente approfittato, facendosi élite e arricchendosi a scapito del popolo.
Secondo Kaczynski è obbligatorio correggere la rotta. L’azione del PiS, da quanto è tornato al potere, è spinta da questa volontà di pulizia morale e trova proprio nella giustizia il terreno su cui lanciare l’affondo perentorio.
Kaczynski ha sentito l’importanza cruciale della partita. Nel dibattito al Sejm (la Camera bassa del Parlamento) sulla riforma della Suprema Corte, ha mostrato grande nervosismo, arrivando a bollare i membri dell’opposizione liberale come responsabili della morte del gemello Lech, l’ex capo dello Stato, deceduto nel tragico schianto aereo di Smolensk, nel 2010. Kaczynski crede che possa essere stata la Russia a orchestrarlo e che i liberali, allora al potere, non abbiano voluto indagare a fondo. Una narrazione, questa, che ha intossicato la vita politica polacca, ma che parallelamente rappresenta uno dei segreti del consenso del PiS, abile a pescare in quei settori dell’elettorato sensibili al tema della congiura russa, come del nemico interno. E qui si torna in un qualche modo al patto profano dell’89 e dunque alla battaglia per controllare la magistratura, che di quell’ordine sarebbe guardiana. La crisi in corso non può essere ridotta al solo confronto tra chi sostiene la democrazia liberale e chi vuole disfarsene.
Il pensiero e l’azione di Diritto e Giustizia presentano continuità storica. Già tra il 2005 e il 2007, quando il partito andò al potere, seppure in coabitazione con altre forze di destra, cercò di fare un po’ di pulizia. Lech Kaczynski, da presidente, lanciò la parola d’ordine della Quarta Repubblica: uno Stato nuovo, rifondato moralmente e capace di riprendere in mano la propria storia e la propria sovranità. Una sovranità minacciata anche dall’ideologia europea e dai limiti che tende a imporre. Ecco perché Kaczynski e il PiS guardano con fastidio alle riserve espresse da Bruxelles su molte delle loro riforme.
Il PiS di oggi non è così diverso da quello di ieri. Ciò che cambia è una maggiore tensione sovranista, in linea con i tempi che corrono. Ma lo schema della battaglia rimane quello e l’idea di Polonia, una Polonia orgogliosa e forte, socialmente più equa (il PiS sta facendo molto welfare) e con un rapporto tra governo e popolo caratterizzato da pochi filtri, non muta.
A quella di Kaczynski si contrappone un’altra visione di Polonia, incarnata a livello politico dalla Piattaforma Civica (PO), il principale partito liberale. In questa visione c’è una maggiore disponibilità alla contaminazione con l’Europa e il mondo, a essere parte del sistema globalizzato (che il PiS invece avversa), evitando però di spogliare il Paese delle sue specificità storiche e culturali.
Questa Polonia, che non riesce a comprendere quella di Kaczynski (probabilmente questo è un limite), ne denuncia il progetto autoritario e l’accusa di allontanarsi dall’Europa, è anche quella che nel corso di questi quasi due anni di governo populista si è manifestata sulle piazze. Ma negli ultimi giorni qualcosa, proprio sulla piazza, è cambiato. Fino a un po’ di tempo fa il motore della manifestazioni era stato il Comitato per la difesa della democrazia (Kod), movimento espressione della società civile nato a fine 2015 su iniziativa di un informatico, Mateusz Kijowski, caduto in disgrazia di recente e sostituito alla guida del Kod da Krzysztof Lozinski. In un momento di sbandamento per i liberali, usciti malconci dal voto dell’ottobre di quell’anno e orfani di Donald Tusk, l’ex premier, andato a presiedere il Consiglio europeo, il Kod ha saputo mobilitare la gente e tenere su l’asticella dell’indignazione. Qualche sua manifestazione ha fatto registrare ottimi numeri, ma il limite è sempre stata l’anagrafe. Il Kod ha portato in piazza soprattutto cittadini di mezza età, gente che aveva militato in Solidarnosc e che ha visto nelle riforme di Kaczynski il principio di una svolta autoritaria. La partecipazione dei giovani alle sue iniziative è sempre stata scarsa.
Ora in piazza ci sono anche i ragazzi, e il Kod non è l’unico gruppo a coordinare una protesta fattasi nazionale e intergenerazionale. Si è avvertita l’urgenza di difendere la democrazia, più che i giudici. E la massa critica sulla piazza è dipesa forse anche dal fatto che gli strumenti di deterrenza finora messi in campo dall’Ue contro gli atti del PiS su stampa, giustizia e altro non hanno funzionato. Semplicemente, Kaczynski li ha ignorati.
Per vincere la battaglia, il movimento di protesta deve aprire crepe consistenti dentro il PiS e nel fronte sociale che lo sostiene. Non sarà facile. Un sondaggio di questi giorni dà il partito di Kaczynski al 37%. Dalle elezioni del 2015 a oggi il gradimento accordatogli non è praticamente mai sceso sotto il 30%. Ed è presto per capire se il veto di Duda potrà aprire dinamiche impreviste.
Vai a www.resetdoc.org
ARTICOLO CHE ILLUSTRA BENE LA SITUAZIONE IN POLONIA…..MANCA ANCORA IL PUNTO INTERROGATIVO DEL TERZO VETO NON APPLICATO…..