Pedina Bahrein: Sciiti in apprensione
dopo le esecuzioni saudite

Da Reset-Dialogues on Civilizations

L’esecuzione capitale in Arabia Saudita del noto religioso sciita Nimr Baqr al-Nimr, guida delle proteste anti-governative del 2011 nella provincia orientale del Regno, ha scatenato proteste anche nel vicino Bahrein, dove la mobilitazione della maggioranza sciita non si è mai fermata dai giorni della rivolta del febbraio 2011, innescata dalle cosiddette primavere arabe.

Manifestazioni disperse con la forza, scontri con le forze di sicurezza e attentati contro caserme e poliziotti si ripetono da quasi cinque anni, e la risposta della casa reale sunnita Al Khalifa a questa protesta a bassa intensità, ma costante, continua a essere la repressione. Negli ultimi giorni, la comunità sciita è scesa in strada brandendo il ritratto di Nimr Baqr al-Nimr nei sobborghi della capitale Manama e in altre città del Regno. Il 2 gennaio la polizia ha usato gas lacrimogeno nella cittadina di Abu-Saiba, per disperdere la folla scesa in strada. E la marcia del primo dell’anno nella cittadina nordorientale di Sitrah è finita in scontri con la polizia, che hanno causato decine di feriti tra i manifestanti.

Il nuovo anno si era aperto con la condanna a morte di un attivista e l’ergastolo per altre 22 persone (solo sette presenti in aula, gli altri condannati in contumacia) nel processo per l’uccisione di un poliziotto, l’anno scorso, in un attentato dinamitardo. L’ultima di una serie di sentenze che hanno portato in carcere decine di oppositori, religiosi, attivisti, esponenti politici, semplici manifestanti con accuse di terrorismo in processi giudicati iniqui, tra le denunce di diverse Ong locali e internazionali, ma nel sostanziale silenzio della cosiddetta comunità internazionale.

«Nei nostri tribunali non si fa giustizia», ha confidato a Reset l’ex deputato bahreinita Ali Al Aswad, esponente della principale forza di opposizione Al Wefaq, che dal 2011 vive a Londra e di recente ha partecipato al convegno La Causa, organizzato dall’Associazione Amici del Libano, a Roma. «L’oppressione continua. Ci sono tremila prigionieri politici nelle carceri e in tanti hanno lasciato il Paese per paura delle persecuzioni e delle torture».

Tante promesse ma nessuna riforma: la tortura come prassi nelle carceri

Poco scalpore hanno fatto anche i rapporti e le testimonianze sul ricorso sistematico alla tortura nelle prigioni e nelle caserme del Regno (anche ai danni di minorenni), sulle sparizioni forzate, pubblicati a novembre scorso da Human Rights Watch (HRW), ma già emersi altre volte negli ultimi anni. La stessa Commissione indipendente d’Inchiesta (BICI), istituita da re Hamad all’indomani della rivolta soffocata nel sangue con l’intervento delle truppe del Consiglio di Cooperazione del Golfo (un’organizzazione di cooperazione sul modello Nato della Penisola arabica dominata dall’Arabia Saudita), aveva rilevato un “uso eccessivo della forza” nei confronti dei detenuti e una “cultura dell’impunità tra le forze di sicurezza”. Altre commissioni sono state istituite da Manama per monitorare la situazione, senza però che si determinassero reali cambiamenti. Sono servite a mostrare un volto riformatore al mondo, ma per HRW la pratica della tortura è ancora diffusa e questi organismi “mancano di indipendenza e trasparenza”.

A settembre una dichiarazione congiunta alla Commissione Diritti umani delle Nazioni Unite ha evidenziato le mancanze di Manama in materia di diritti umani, ma tranne qualche richiamo, il Bahrein non è mai stato al centro di aspre critiche per le violazione compiute contro i suoi cittadini o per le leggi liberticide approvate dal 2011 con il pretesto della sicurezza e del contrasto al terrorismo, talvolta agitando lo spauracchio del settarismo. Ma per Aswad le questioni religiose non hanno nulla a che fare con la battaglia che l’opposizione sta combattendo in Bahrein. Non si tratta di uno scontro tra sciiti e sunniti: «È, invece, una questione di diritti. Quando c’è un monarca che ha un potere assoluto, non si può parlare di confessionalismo. Noi chiediamo che ci siano riconosciuti i nostri diritti di cittadini. Chiediamo di poterci esprimere in modo libero, di non farci governare da una famiglia che accentra tutto il potere nelle proprie mani, che governa in base al confessionalismo e alla religione» ha aggiunto l’uomo politico.

Le riforme promesse dal sovrano dopo il 2011 non sono state attuate, né è stato portato a termine il processo iniziato con il referendum del 2001, quando i bahreiniti hanno detto sì al National Action Charter, un progetto di riforme che nel 2002 ha portato alla trasformazione del Bahrein in una monarchia costituzionale e ha mutato i caratteri istituzionali della carica del capo di Stato, non più emiro ma re. Poco, tuttavia, è cambiato, anzi il regime appare più rigido: il sovrano ha sempre l’ultima parola su tutto e ogni forma di dissenso è tacciata di sovversione. E nonostante i proclami, le istanze degli sciiti restano inascoltate e questo sta provocando marginalizzazione e radicalizzazione delle posizioni.

«La nostra lotta è pacifica», continua Aswad, «chiediamo che sia aperto un dialogo equo e democratico con tutte le parti in causa, con tutti i movimenti, le fazioni politiche e le istituzioni. La lotta che stiamo facendo in Bahrein non è una cosa recente, dura da quasi un secolo, ed è una battaglia per i diritti che dobbiamo combattere in un contesto difficile e ostile ai cambiamenti. Questa battaglia dà fastidio alle monarchie del Golfo, perché non vogliono come vicino un Paese democratico e libero. Temono un contagio».

Tra interessi militari occidentali e mire dell’Iran

A levare la propria voce in difesa degli attivisti bahreiniti è di solito l’Iran, accusato dal governo di Manama di foraggiare i “terroristi” e i “sovversivi”, sciiti per lo più, con l’obiettivo di espandere la propria influenza sulla Penisola arabica, dominio quasi esclusivo dei sauditi. Per Riad, come per molte potenze occidentali, il piccolo arcipelago del Golfo (un tempo parte dell’Impero Persiano) è un bastione contro le mire espansionistiche di Teheran, con cui si contende il ruolo di potenza regionale. Infatti, l’arcipelago ospita la V flotta statunitense e ha da poco avviato i lavori per la costruzione della prima base militare permanente del Regno Unito nell’area del Golfo persico.

Il minuscolo Bahrein è dunque una pedina fondamentale nello scacchiere mediorientale. Un bacino d’influenza e un alleato irrinunciabile per le monarchie del Golfo, per Washington, per Londra e per altri Paesi occidentali che hanno lauti rapporti commerciali con il regno dei Khalifa, la cui economia è fortemente dipendente dal petrolio e improntata alla finanza. In un quadro siffatto, di conseguenza, non possono che passare in secondo piano le richieste della popolazione, in particolare di quella sciita che lamenta discriminazioni e da tempo denuncia il tentativo della casa reale sunnita di rovesciare la composizione demografica del regno, concedendo con facilità la cittadinanza agli immigrati sunniti. Ed è ormai prassi la revoca della cittadinanza a coloro che sono condannati per terrorismo, che si ritrovano così a essere apolidi.

Verso il quinto anniversario delle proteste di Manama

Manca ormai poco più di un mese all’anniversario dell’inizio, il 14 febbraio del 2011, delle manifestazioni di piazza La Perla a Manama, e a riaccendersi è la protesta dei bahreiniti, in particolare dei cittadini sciiti le cui richieste vanno da una maggiore partecipazione alla vita politica, alla trasformazione del Paese in una reale monarchia costituzionale, fino alla fine del regime degli Al Khalifa. La morte del religioso al-Nimr ha esacerbato gli animi, mentre la comunità sciita del regno attende la riapertura del processo, il 14 gennaio, ad Ali Salman, segretario generale di Al Wefaq e noto moderato, finito in carcere un anno fa con le accuse di incitamento all’odio e all’uso della violenza per rovesciare il governo. Un’altra scintilla che potrebbe provocare un incendio nella piccola monarchia del Golfo.

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