Da Reset-Dialogues on Civilizations
Sabato 6 giugno Papa Francesco è stato a Sarajevo.È ripartito in giornata alla volta di Roma. La visita è stata breve, ma non certo insignificante. La Bosnia Erzegovina è una terra affaticata, ma che agli occhi del Vaticano riveste una certa importanza.
Il paese presenta delle fratture nazionali e culturali profonde tra le tre principali comunità: bosgnacchi (musulmani), serbi e croati. La statualità è pallida. Il sistema amministrativo, frutto degli Accordi di Dayton del 1995, tesi a chiudere il conflitto più che a fornire strumenti capaci di assicurare una governance efficace, è inzavorrato da tutta una serie di pesi e contrappesi, spesso stabiliti tramite criteri squisitamente etnici. I processi decisionali sono oltremodo lenti e l’integrazione europea del paese ne ha risentito molto negativamente.
Negli ultimi giorni, comunque sia, sono entrati in vigore gli Accordi di associazione e stabilizzazione con l’Europa. Passo rilevante, senza dubbio. Ma occorre capire se motiverà la classe dirigente a produrre riforme serie, tali da convincere la comunità internazionale a chiudere un sistema di controllo esterno che si configura, a tutti gli effetti, come un protettorato.
Se questa a grandi linee è la Bosnia, cos’è Sarajevo? Le tracce della “Gerusalemme d’Europa” sono assai sbiadite. La città è a trazione musulmana. Perché il rimarcare un’identità, deprimendo quella altrui, fa parte del codice politico-culturale della Bosnia odierna. Anche i serbi e i croati ricamano sulle loro specificità nazionali e nel corso del tempo hanno “bonificato” le rispettive aree di influenza amministrativa. Il che ha praticamente annientato la possibilità che, attraverso il diritto al ritorno di chi in guerra è stato cacciato dalla propria casa, la Bosnia Erzegovina tornasse a essere autenticamente plurinazionale.
Il dialogo con l’Islam
Ma ora è il caso di chiedersi il senso della missione pontificia a Sarajevo. Nei giorni scorsi Jorge Bergoglio l’ha spiegato attraverso un video messaggio. Così s’è pronunciato:
«Vengo tra voi, con l’aiuto di Dio, per confermare nella fede i fedeli cattolici, per sostenere il dialogo ecumenico e interreligioso, e soprattutto per incoraggiare la convivenza pacifica nel vostro Paese […] Mi preparo a venire tra di voi come un fratello messaggero di pace, per esprimere a tutti – a tutti! – la mia stima e la mia amicizia […]
Colpisce, in queste parole, l’assenza di riferimenti al conflitto civile bosniaco. Ma non deve stupire troppo. Francesco non si reca in Bosnia Erzegovina allo scopo di fare un pellegrinaggio del dolore. Guarda piuttosto al presente e al futuro del paese balcanico, che a prescindere dalla depressione politica (ma anche economica) conserva un potenziale di dialogo ecumenico importante. Il Vaticano vuole sfruttarlo seguendo due linee. La prima è quella relativa al confronto costruttivo con l’Islam (la fede con più seguito in Bosnia Erzegovina). Aspetto fondamentale, alla luce dell’attuario scenario globale. La chiesa di Roma teme lo scontro di civiltà tra cristianità e mondo islamico, che già da ora genera conseguenze spiacevoli sul gregge cristiano nel Medio Oriente.
In questo senso la visita papale a Sarajevo va legata a quelle, avvenute lo scorso anno, rispettivamente a settembre e novembre, in Albania e Turchia. Il papa ha scelto di andare in Albania perché il piccolo paese adriatico-ionico, con il suo Islam laico e la tolleranza manifestata verso la minoranza cattolica, è ritenuto un modello di coesistenza. Il messaggio sulla convivenza e sul reciproco rispetto è stato centrale anche nella missione in Turchia. Paese che, al netto di una recente tendenza all’islamizzazione della vita pubblica, vanta comunque una storia e una tradizione segnate dalla promiscuità culturale. L’impero ottomano era anche questo.
Il sogno dell’unità cristiana
Quanto alla seconda linea sottesa nella visita sarajevese, l’enfasi ricade sulle relazioni tra Vaticano e mondo ortodosso. La chiesa serbo-ortodossa di Bosnia è legata al patriarcato di Belgrado, il più grande e influente del versante sud-orientale dell’Europa. I rapporti con il Vaticano, in tempi recenti, sono andati migliorando. Insomma, la Bosnia può stimolare, a livello regionale, ulteriori processi virtuosi su questo fronte. Oltre la linea dei Balcani, comunque sia, si intravede un fine più ambizioso e più grande, dichiarato ma difficile da concretizzare: la ritrovata unità del mondo cristiano. Francesco è sensibile, sul tema. Quando operava a Buenos Aires ha sviluppato rapporti intensi con le comunità ortodosse.
Anche in questo caso può essere utile guardare al precedente del viaggio apostolico in Turchia, durante il quale il papa ha pregato intensamente assieme a Bartolomeo, il titolare del patriarcato ortodosso di Costantinopoli. I due hanno evocato lo spettro drammatico di un Medio Oriente senza più cristiani. Ma il loro affiatamento va visto anche nell’ottica, appunto, del grande progetto della riunificazione tra i cristiani d’Occidente e quelli d’Oriente.
Tutto questo, ovviamente, passa dal rapporto tra Roma e il patriarcato di Mosca. Benché Bartolomeo è formalmente il primus inter pares tra i capi delle comunità ortodosse a livello mondiale, Kirill, il numero uno della chiesa russa, è colui che guida l’autocefalia più grande e politicamente influente. «Francesco, coltivando l’amicizia con Bartolomeo e rafforzandone la figura, subordinata nella sostanza a quella di Kirill, al netto degli aspetti formali, si pone due obiettivi. L’uno è racchiuso nell’altro. Si tratta di lavorare alla saldatura del mondo cristiano, facendo sì al contempo che si pongano le condizioni affinché sia il Vaticano a rappresentarne il motore», spiega a Resetdoc Matteo Albertini, esperto di questioni balcaniche e autore di un recente saggio, intitolato Le sfide del Vaticano nei Balcani.
I Balcani contendibili
Secondo Albertini la visita di papa Francesco in Bosnia Erzegovina, oltre a essere una cartina di tornasole dell’azione globale vaticana, va misurata anche sulla scorta di dinamiche attinenti alla competizione geo-religiosa – se così si può dire – nell’oltre Adriatico. «I Balcani sono terre contendibili. Il Vaticano è interessato a costruire un “estero vicino”, uno spazio vale a dire dove possa esercitare influenza. In questo senso si spiega l’estremo interesse verso i cattolici di etnia albanese. Gli albanesi, infatti, sono l’unico gruppo che nella regione registra un andamento demografico crescente». Più il Vaticano farà proseliti, non solo in Albania, ma in tutti i territori balcanici a maggioranza albanese, più la sua influenza sarà robusta.
Ma il concetto di proselitismo, continua Albertini, non è sufficiente a qualificare l’azione diplomatica del Vaticano nella regione. «Quello che a Francesco sta a cuore, prima di tutto, è il dialogo. È questo il motivo in base al quale preferisce affidare le nunziature a chi sa costruire ponti e attivare canali».
In questo si riflette una differente impostazione con la chiesa di Wojtyla. D’altro canto i tempi sono diversi. L’approccio del papa polacco ai Balcani era orientato al consolidamento della cattolicità, anche ricorrendo al dogmatismo. Questo perché Giovanni Paolo II percepiva il bisogno di ricristianizzare la regione, tenuto conto della lunga stagione comunista e ateista da essa vissuta nel secondo Novecento.
Medjugorje: questione rimandata
Potrebbe finire qui, ma è quasi inevitabile concludere con un accenno a Medjugorje. Papa Francesco non ci andrà. Era scontato. Il tema è scivoloso e alimenta divisioni: in Vaticano, tra i fedeli di tutto il mondo e della Bosnia Erzegovina, come anche tra la sua comunità francescana, colonna portante dell’identità storica bosniaco-cattolica. Ma Medjugorje è anche strumentalizzata politicamente dal nazionalismo croato, che ha nella Bosnia-Erzegovina una costola importante.
In tanti pensano che il Vaticano finirà con il cedere alla pressione mediatica, popolare e finanziaria (perché Medjugorje mette in circolo molto denaro), imprimendo il sigillo di autenticità alle apparizioni mariane nella piccola località dell’Erzegovina. Ma la commissione d’inchiesta istituita appositamente oltre Tevere e incaricata di fare chiarezza sulla faccenda non ha ancora emesso il verdetto finale, benché i lavori siano stati chiusi a inizio 2014. Sembra che prevalga ancora la prudenza. Forse perché, tra le varie cose, si pensa che il riconoscimento del fenomeno Medjugorje può avere ricadute pericolose sulla Bosnia Erzegovina, sfarinandone quella dimensione multiculturale che, sebbene flebile, papa Francesco ha intenzione di benedire?
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