Da Reset-Dialogues on Civilizations
“Papa Francesco è il primo pontefice che visita l’America da cittadino sudamericano: per lui gli Stati Uniti non vanno osservati attraverso una chiave di lettura europeista, una tendenza che invece aveva accomunato tutti gli altri papi nei loro viaggi oltre l’Atlantico. In questo caso la sintonia con il Presidente degli Stati Uniti è sincera perché lo stile di esercizio del potere si fonda per entrambi sulla ricerca di un rapporto diretto con la popolazione e non tanto sui giudizi delle élite politiche, come nel caso di Obama, o ecclesiastiche, come nel caso di Francesco”. A parlare è Umberto Mazzone, professore di storia del Cristianesimo all’Università di Bologna e studioso della relazione tra Cristianesimo e processi di secolarizzazione in età moderna e contemporanea. Tra i suoi libri più recenti figura Cristianesimo: istituzioni e società dalla Rivoluzione francese alla globalizzazione (Archetipolibri, Bologna 2011). Ci siamo confrontati con lui sul viaggio di Papa Francesco a Cuba e negli Stati Uniti, dalla visita alla Casa Bianca all’incontro con Fidel Castro a L’Avana.
Professor Mazzone, come legge quest’ultimo viaggio di Papa Francesco negli Stati Uniti e a Cuba?
Papa Francesco è americano. Anche se proviene dall’America Latina, è un figlio delle Chiese d’oltreoceano e, in qualche modo, fa ritorno in un continente di cui possiede le chiavi interpretative dal punto di vista culturale. Paolo VI fu il primo pontefice a recarsi in visita pastorale negli Stati Uniti, ma i suoi viaggi rappresentavano l’apoteosi della cultura cattolica europea. Paolo VI era un italiano e percepiva gli americani come i liberatori dell’Italia dal fardello nazifascista. Anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI erano europei e ben memori della storia europea del Novecento. Questa volta, invece, un latinoamericano approda nella terra degli Yankee.
Nonostante oggi al Papa piaccia molto fregiarsi del suo titolo di Vescovo di Roma, egli tiene ben a mente i suoi anni da Arcivescovo di Buenos Aires e da rappresentante delle chiese cattoliche di quel continente. A volte, leggendo i giornali, sembra quasi che alcune delle svolte e dei gesti del papa siano in qualche modo improvvisati, invece la sua linea di apertura e di dialogo con gli interlocutori più diversi è la stessa da molti anni. Francesco ha una consapevolezza profonda dell’importanza dello sviluppo umano perché proviene da una delle megalopoli più grandi del mondo, Buenos Aires. È impressionato dalla vicenda dei migranti in maniera particolare proprio perché è consapevole della portata dei flussi e delle ondate di migrazioni che toccano vivamente il continente da cui proviene. Gli stanno a cuore le dinamiche demografiche e gli assetti urbani e sa che il tema dello “spostamento” sarà il grande tema degli gli anni a venire.
Come è stato accolto il Papa negli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti c’è una polarizzazione particolare tra alcuni gruppi di cattolici sostenuti dall’episcopato conservatore e la base della popolazione cattolica che apprezza particolarmente l’operato di questo pontefice. Lo abbiamo visto anche in Europa: a questo Papa interessano molto più le persone, nella loro larga base, piuttosto che le élite. Se è vero che l’episcopato americano risente ancora molto delle nomine di Benedetto XVI e che i gruppi conservatori vedono questo pontefice quasi come un avversario da battere sul piano politico, è vero anche che, invece, anche i cattolici più integralisti potrebbero giovare ampiamente del messaggio di un pontefice che intende davvero rappresentare l’universalità dei credenti e per cui l’Europa da sola non rappresenta più l’unico vero asse su cui deve muoversi la cultura cattolica.
La sintonia che Obama ha manifestato al pontefice, a partire dalla sua attenzione al cambiamento climatico, non è un gesto di omaggio o di piaggeria di facciata, ma il Presidente degli Stati Uniti si ritrova molto nel messaggio di Francesco perché anche a lui interessa molto di più il contatto diretto con il popolo di quanto non lo interessino le vicende interne ai palazzi. Gli anni dei governi neocon, e particolarmente quelli di Bush Junior, hanno fatto del revival religioso un’arma politica capace di riunire sotto l’unica egida repubblicana sia i gruppi evangelici e protestanti sia i cattolici più reazionari, oggi mi sembra che la maggior parte della cittadinanza cattolica americana sia invece più spostata sul versante dei valori liberaldemocratici, a differenza dell’episcopato.
Quale messaggio offre Francesco a una società secolarizzata come quella statunitense?
Il messaggio che la figura del pontefice incarna non consiste affatto in un allentamento sul piano dottrinale, come alcuni pensano, ma piuttosto nella riscoperta di un’etica della misericordia fondata intorno alla “comprensione verso l’errante” e capace, com’era già stato capace Giovanni XXIII, di distinguere nettamente l’“errore”, da ripudiare, con l’“errante”, invece da accogliere. Papa Francesco ha messo in moto una dinamica nuova: lo scioglimento della frattura o del nodo tra l’episcopato e l’insieme dei fedeli.
Che cosa ha pensato quando ha visto l’immagine di Papa Francesco a colloquio con Fidel Castro?
Ho visto l’immagine di un uomo pragmatico che ha compreso che era giunto il tempo per un vero disgelo tra Cuba e gli States. Ormai è riconosciuto da tutti quanto Francesco sia stato l’artefice della ripresa del dialogo e della diplomazia. Al contempo Francesco è preoccupato che un avvento troppo repentino del capitalismo consumista a L’Avana possa condurre alla degenerazione di un’isola che deve pur conservare la sua autonomia, ecco perché mi sembra che il messaggio cattolico possa fungere in un certo qual modo da “ponte” verso un disgelo auspicato da decenni. La nuova Chiesa di Francesco e la vicenda cubana vanno per certi versi lette insieme perché insieme rappresentano la necessità di piena presa di coscienza della modernità e la critica ad un capitalismo senza limiti e senza scrupoli.
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