Da Reset-Dialogues on Civilizations
BETLEMME – Si sono lanciati in nove su un ragazzino palestinese di 14 anni. Lo hanno picchiato con i manganelli, gettato a terra e preso a calci. Stavolta però non si è trattato di soldati israeliani, ma di poliziotti palestinesi. Le immagini del pestaggio del giovane Ramiz al-‘Azze da parte delle forze anti-sommossa dell’Autorità Nazionale Palestinese, venerdì 18 settembre, sono diventate in poche ore virali. E hanno scatenato la rabbia contro il governo di Ramallah.
La manifestazione era nata sull’onda delle proteste palestinesi per le recenti e gravi violazioni da parte delle autorità israeliane contro la Spianata delle Moschee. Se a Gerusalemme si sono susseguiti giorni di scontri in Città Vecchia tra polizia israeliana e manifestanti palestinesi, nei Territori le proteste a difesa della moschea di Al Aqsa (terzo luogo sacro dell’Islam) sono state fermate dalla stessa polizia palestinese. Non certo una novità: secondo gli Accordi di Oslo del 1994, l’Autorità Palestinese è tenuta a garantire la sicurezza di Israele, arrestando presunti sospetti e bloccando eventuali manifestazioni lungo il muro.
Succede spesso, qui nei Territori, di vedere poliziotti palestinesi dispiegati in tenuta anti-sommossa per impedire sassaiole o marce. Ma quanto successo venerdì 18 ha superato ogni limite: il pestaggio del 14enne vicino al campo profughi di al-‘Azze non è stato l’unico. La polizia dell’Anp ha picchiato altri due giovani, due fratelli di 18 e 16 anni, Mahmoud e Ahmad Hamamra, e una donna che era intervenuta a difesa di un ragazzino. Tutti in ospedale.
«Hanno cercato di mettere a tacere i pestaggi rimuovendo i poliziotti responsabili – ci racconta un giovane del campo di Al-‘Azze, in condizione di anonimato per timore di ritorsioni – ma il problema è a monte: chi ha mandato gli agenti anti-sommossa a fermare la manifestazione per Al Aqsa? L’Anp. Sono tutti responsabili. Lavorano per dividere la comunità secondo l’appartenenza politica: funzionari del governo hanno fatto visita a due dei ragazzi pestati venerdì, la cui famiglia è vicina a Fatah. Ma non hanno fatto lo stesso con il ragazzino di 14 anni, vicino al Fronte Popolare».
Uno scandalo che ha travolto la già debolissima Autorità Nazionale, che all’inizio è corsa ai ripari sospendendo dal servizio i nove agenti (cinque mandati in pre-pensionamento e quattro in detenzione per tre mesi) ma ha poi ulteriormente peggiorato una situazione già calda: domenica sera circa 300 palestinesi hanno preso parte ad una marcia partita dal campo profughi di Dheisheh e arrivata sotto la sede dell’Anp a Betlemme. In mano cartelli contro il governo di Ramallah, mentre risuonavano gli slogan contro il presidente Abbas. La reazione della polizia ai sassi lanciati da alcuni manifestanti è stato il fuoco: dalle finestre dell’edificio sono partiti colpi di arma da fuoco per disperdere la folla.
Gli spari hanno acceso la rabbia: di lì a poco, secondo un testimone che ci ha riportato gli eventi di domenica sera in anonimato, «un gruppo di uomini membri di Fatah, con pistole e passamontagna, è entrato nel campo di Dheisheh. Pensavamo fossero scesi in strada in sostegno con la manifestazione, che finalmente si fosse creato un fronte unico contro le violazioni del governo. Invece no: hanno distribuito volantini dove dicevano ‘L’Anp è nata da Fatah, chi attacca l’Anp attacca Fatah’. Subito sono partiti gli scontri. Alcuni manifestanti sono riusciti a togliere il passamontagna agli uomini armati: erano tutti membri dei servizi segreti palestinesi, Mukhabarat, o del governo».
Gli spari, gli scontri successivi, le violazioni lasciano il re nudo: l’Autorità Palestinese sta vivendo l’ennesima crisi, il consenso è ormai precipitato. La maggior parte della popolazione residente tra Cisgiordania e Gaza non ha fiducia nel governo di Ramallah, spesso definito il secondo braccio dell’occupazione israeliana. Tanto da ricalcarne i modi: «Quello che è vergognoso sono i metodi utilizzati dall’Anp per bloccare sul nascere ogni tipo di critica – ci spiega Farid al-Atrash, direttore dell’Independent Commission for Human Rights, ente fondato da Yasser Arafat per monitorare le violazioni dei diritti nei Territori – Si va dagli arresti ingiustificati, senza accuse reali, alla censura della stampa e dei giornalisti [come successo domenica: tre reporter, Mohsin Amarin, Ata Manaa e Moaz Amarneh sono stati arrestati mentre coprivano la manifestazion, ndr]; dalle comprovate torture fisiche e psicologiche contro i detenuti alla restrizione della libertà di espressione, con un capillare controllo dei social network».
«A peggiorare la situazione c’è la divisione politica tra le due principali fazioni palestinesi, Hamas e Fatah, tra Gaza e Cisgiordania – aggiunge al-Atrash – Se nella Striscia è Hamas a perseguitare membri di Fatah con arresti e detenzioni di natura politica, in Cisgiordania avviene l’opposto. Il nostro continuo monitoraggio porta alla soluzione di alcuni casi, ma molte violazioni restano impunite».
A monte c’è molto di più, una crisi strutturale di cui è specchio la cancellazione a tempo indeterminato della riunione del Consiglio Nazionale Palestinese per la nomina del nuovo presidente e l’indebolimento voluto dell’Olp, ormai un corpo senza vita. C’è una divisione tra partiti politici, tra Hamas che tiene un dialogo segreto con Israele per ammorbidire l’assedio di Gaza, Fatah che tenta di sopravvivere al suo declino usando l’Anp come strumento di imposizione d’autorità, e i partiti di sinistra (dal Fronte Popolare al Fronte Democratico) ormai spariti dalla scena politica e dai movimenti base.
Il calo di consenso appare così irreversibile, sia verso i partiti politici che verso il governo, che riesce a mantenere il controllo della popolazione solo attraverso i salari: ad oggi, seppure i servizi pubblici offerti dall’Anp necessiterebbero di 50mila dipendendi, Ramallah dà lavoro a 153mila persone. Tre volte tanto. Perché 153mila persone significano 153mila famiglie, che difficilmente faranno pressioni per far cadere o per modificare un’autorità che gli fornisce un’essenziale entrata economica. A godere di tante divisioni interne è il governo israeliano che senza troppi sforzi e con costi minimi mantiene viva e vibrante l’occupazione.
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