Da Reset-Dialogues on Civilizations
«È solo una goccia nell’oceano, ma è una goccia importante». Così il ministro delle Finanze israeliano Moshe Kahlon ha commentato l’incontro di giovedì scorso con la controparte palestinese, il ministro Shukri Bisharah. Il meeting è stato indetto, dicono le due delegazioni, per porre un freno al processo di collasso finanziario dell’Autorità Nazionale Palestinese, alle prese con un deficit di bilancio di 380 milioni di dollari.
Per mettere una pezza alla crisi si ripropone la solita ricetta: il trasferimento delle tasse palestinesi raccolte da Israele e poi rigirate nelle casse di Ramallah, strumento usato a volte per fare pressioni politiche sull’Anp e a volte per toglierla dall’imbarazzo del crollo del consenso interno.
Il ministro Kahlon ha fatto sapere che Tel Aviv scongelerà 126 milioni di dollari di tasse e lavorerà all’incremento di migliaia di permessi di lavoro dentro il territorio israeliano a favore dei lavoratori palestinesi della Cisgiordania. Lo sblocco del denaro è stato sottoposto ad una condizione: il governo di Ramallah non deve più prendere iniziative contro lo Stato di Israele di fronte alle istituzioni internazionali.
Ricatti o meno, alla base sta la strategia israeliana in un periodo di tensioni e violenze, incontrollabili per le autorità di Tel Aviv perché spesso iniziativa di singoli individui, slegati da movimenti politici e partiti. Gli oltre 180 morti palestinesi e 23 israeliani in soli cinque mesi sono il diretto prodotto della disperazione palestinese, della rassegnazione per un’occupazione militare brutale che colpisce la popolazione da quasi settant’anni.
Ma Israele tira fuori dal cappello una soluzione che soluzione non è: la pace economica, tanto agognata dalle amministrazioni succedutesi a Washington e da qualche anno cavallo di battaglia di un centinaio di imprenditori israeliani e palestinesi. Fare business insieme per giungere alla pace, un vecchio mantra che si basa sull’accantonamento dei diritti politici e di autodeterminazione del popolo palestinese.
Il gruppo dei cento imprenditori ha organizzato incontri e rassegne, teorizzando un processo che è già in corso da anni: le due élite economiche fanno affari, si arricchiscono, lavorano e investono in progetti comuni. Una realtà consolidata, di cui nel 2011 aveva dato la misura il ricercatore palestinese Issa Smeirat: gli investimenti privati di uomini d’affari palestinesi in Israele ammonta ad almeno 2,5 miliardi di dollari, esattamente il doppio del denaro investito nei Territori Occupati.
Su tali rapporti punta anche il governo israeliano e il piano di riforme disegnato dal ministro Kahlon ne è specchio fedele: l’obiettivo – dice – è migliorare le condizioni di vita dei palestinesi, renderle minimamente dignitose così da frenare le violenze. «Penso che sia possibile lavorare su questioni economiche e aiutare a cambiare la vita dei palestinesi – ha detto Kahlon – Può andare meglio, ci possono essere maggiori legami economici tra noi e loro e questo incrementerà la fiducia e cambierà gli umori».
Il pacchetto che il ministro delle Finanze ha presentato al premier Netanyahu, ottenendone l’approvazione, si fonda su una serie di elementi: apertura agli imprenditori palestinesi del settore delle costruzioni in Israele; possibilità per giovani palestinesi di lavorare o svolgere stage nelle compagnie di high-tech israeliane; costruzione di zone industriali comuni in Cisgiordania, gestite da israeliani e palestinesi; limitazione delle tasse doganali; riduzione dei tempi di trasferimento delle tasse nelle casse dell’Anp; aumento del numero di permessi di lavoro in Israele per i lavoratori palestinesi.
Restano fuori, però, gli elementi senza i quali uno sviluppo economico sotto occupazione rimane una chimera: i palestinesi non hanno alcun controllo delle proprie risorse naturali né dei confini. Non possono svilupparsi nei territori in Area C (vale a dire il 60% della Cisgiordania, sotto controllo militare e civile israeliano): ogni costruzione, che si tratti di case, fabbriche, scuole, cliniche, fattorie, deve ricevere l’approvazione delle autorità israeliane che – dati Onu (1) – la nega nel 98,5% dei casi. La presenza di quasi 100 checkpoint militari (2), inoltre, limita gravemente la libertà di movimento e quindi lo sviluppo di una rete commerciale efficiente. L’assenza di controllo sui confini verso l’esterno, infine, non solo limita le entrate in termini di tasse di dogana ma impedisce un flusso costante e normale di importazioni ed esportazioni, rendendo il mercato palestinese prigioniero di quello israeliano.
Manifestazioni, proteste, anche attacchi, si spazzano via con il denaro: questa la visione israeliana, che non tiene conto dei radicati sentimenti di oppressione, discriminazione e umiliazione vissuti quotidianamente da un popolo sotto occupazione militare. Basta guardare indietro, alla storia del conflitto: la Prima Intifada, la sollevazione popolare per eccellenza, scoppiò in un periodo di benessere economico, con tassi di occupazione elevati sia a Gaza che in Cisgiordania, con maggiore libertà di movimento (non esistevano ancora muri e checkpoint né il famigerato regime dei permessi di lavoro). Eppure l’Intifada esplose come naturale risposta all’occupazione.
Al contrario oggi di sollevazione popolare non si può ancora parlare: in strada non scendono le masse e le manifestazioni si limitano a quelle tradizionali del venerdì. I picchi di tensione si raggiungono durante gli attacchi con i coltelli, veri e presunti, e coinvolgono un numero minimo di persone.
La ragione della scarsa mobilitazione ce la raccontano ogni giorno le famiglie palestinesi: lavoro non ce n’è neanche l’ombra, i salari restano bassi, i mutui incombono, le spese per i figli aumentano. Nessuno, dicono, può permettersi oggi un’Intifada. Le politiche neo-liberiste intraprese dall’ANP su spinta delle istituzioni finanziarie internazionali e dei donatori esteri hanno annichilito la già debole economia palestinese: nei Territori Occupati non si produce più quasi nulla e la difficoltà ad arrivare alla fine del mese allontana la gente dalla piazza.
C’è ancora chi in piazza scende, chi protesta e chi manifesta. E chi non lo fa sa bene che la via per la pace non è il business in comune con il potere occupante, un giro di affari che arricchisce l’élite economica (prodotto dei regimi coloniali) ma non fornisce soluzioni alla legittima domanda di diritti di autodeterminazione e libertà.
Note:
(1) Rapporto dell’agenzia Ocha di settembre 2015 e riferito al periodo dal 2010 al 2014;
(2) Rapporto dell’associazione israeliana per i diritti umani, B’Tselem.
Nella foto di copertina: Moshe Kahlon, il Ministro delle finanze dello Stato di Israele
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