Da Reset-Dialogues on Civilizations
La tentazione di descriverli come qualcosa di diabolico è forte, e il movimento che si è imposto sulla scena mediorientale con il nome di «Stato islamico» sembra fare di tutto per dare un’immagine diabolica. Un crescendo di immagini terrificanti, dalle teste tagliate alla crudele morte di un prigioniero bruciato vivo in una gabbia, alle notizie di esecuzioni di massa, fino a barbarie come la riduzione a schiavitù sessuale di donne yazidi – o come l’immagine di un bambino a cui fanno uccidere un prigioniero: quasi una rincorsa a suscitare indignazione, ripulsa, orrore. Se esiste il «male assoluto», viene da dire, eccolo.
Le definizioni apocalittiche però non aiutano a capire. In una regione lacerata da diverse forze in conflitto gli uomini dello Stato islamico non sono gli unici a uccidere, stuprare, compiere esecuzioni sommarie e perfino decapitare o bruciare. Certo però nessuno pubblicizza i propri crimini in modo così spettacolare – e deliberato.
Così sorgono diverse domande. Da dove nasce il movimento denominato «Stato islamico dell’Iraq e del Levante», Daesh nel suo acronimo in arabo (Dawla Islâmiya fi al-Irâq wa ash-Shâm), Isil o Isis in inglese, e poi semplicemente «Stato Islamico»? Perché, nonostante l’immagine di terrore che diffonde, esercita tanta attrattiva su giovani ben oltre la regione, e inoltre, come spiegare un’ascesa così rapida e folgorante e in apparenza irresistibile? Un paio di saggi pubblicati di recente in Francia possono aiutare a inquadrare il fenomeno politico che sta rimescolando la regione mediorientale, forse in modo irreversibile.
«Gli ingredienti del successo iniziale dello Stato islamico non sono di ordine militare», osserva Pierre-Jean Luizard, uno dei massimi studiosi del Medio Oriente, in Le piège Daech («La trappola Daesh», La Découverte, Paris 2015). Per analizzare gli ingredienti politici, sociali, e anche simbolici che hanno permesso l’avanzata di questo movimento, Luizard parte dalla guerra confessionale scoppiata in Iraq tra sciiti e sunniti tra il 2003 e il 2008, durante l’occupazione occidentale, che ha prodotto migliaia di morti e la cacciata di molti sunniti da Baghdad avviando un processo di frammentazione del paese su basi confessionali.
Ecco il primo ingrediente a spiegare l’iniziale successo dello Stato Islamico: il regime settario, corrotto e autoritario instaurato a Baghdad. Luizard cita ad esempio la questione delle milizie sunnite, quelle dei «consigli del risveglio» armati e stipendiati dai comandi Usa per sconfiggere al-Qaeda: dovevano essere integrate nell’esercito e nella polizia nazionale, ma così non è stato (lo stesso premier Nouri al Maliki ha ammesso che non era disposto a integrarne più del 20%). Luizard osserva che l’esercito iracheno è percepito nelle zone a maggioranza sunnita come una forza occupante, corrotta e fonte di angherie. Cita le manifestazioni di protesta avvenute nel 2012 e 2013 a Fallujah, Tikrit, Mosul, con slogan analoghi a quelli delle Primavere arabe: l’esercito iracheno le ha represse con una violenza schiacciante, esattamente come avveniva in Siria (senza però grande attenzione dei media internazionali, aggiungiamo). Insomma, l’integrazione in un sistema politico nazionale in Iraq è fallita.
Così, quando lo Stato islamico ha esordito nel gennaio 2014 occupando Fallujah, città sunnita ad appena 60 chilometri da Baghdad, ha segnato una rottura simbolica: ha offerto agli iracheni sunniti una via d’uscita dall’oppressione di Baghdad. Non si spiegherebbe altrimenti perché le milizie con la bandiera nera sono state inizialmente ben accolte a Mosul, città irachena con 2 milioni di abitanti. In ogni città via via occupata, lo Stato Islamico ha adottato la strategia di perseguire i corrotti (magari con esecuzioni pubbliche) e «restituire il potere agli attori locali», capi clan o notabili di quartiere – naturalmente a condizione di una totale fedeltà al Daesh, e della scrupolosa applicazione delle sue norme morali: la prima e più simbolica come sempre quella di segregare le donne sotto pesanti veli.
Ripercorrere l’ascesa dello Stato islamico è utile (Luizard aggiunge al suo saggio un’ottima cronologia). Non ci addentriamo qui nei passaggi che portano un oscuro imam a diventare capo di al-Qaeda in Iraq con il nome Abu Baqr al Baghdadi, nel 2010, e poi a rompere con la leadership centrale di al Zawahiri e lanciare la strategia dello «Stato islamico in Iraq e nel Levante», per dare una base territoriale concreta all’utopia jihadista. (Un corrispondente di Al Monitor ricostruisce la storia di al Baghdadi e dice che un passaggio chiave è stato il suo soggiorno nel campo di detenzione americano di Camp Bucca, presso Baghdad, nel 2004-2005, vera scuola di jihadismo: là il futuro «Califfo» ha avvicinato sia i dirigenti di al Qaeda, sia alcuni ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein, che lo accompagneranno poi nell’avventura dello Stato Islamico).
Certo è che l’avanzata dello Stato Islamico è avvenuta in modo concomitante in Iraq e in Siria a partire dal gennaio 2014, e per qualche mese è sembrata inarrestabile. Quando però al Baghdadi si proclama «Califfo», il 29 giugno a Mosul, l’espansione è già finita: lo Stato Islamico ha cominciato a trovare una seria opposizione militare e ha rinunciato all’obiettivo di arrivare a Baghdad. Deve accontentarsi di dominare una regione «confessionale», osserva Luizard, nella valle dell’Eufrate tra Iraq e Siria.
Nondimeno la valenza simbolica del «Califfato» resta forte, nota lo studioso, perché per la prima volta ha una base territoriale: è la costruzione di un’utopia concreta sul terreno. Poi, perché Daesh compie un altro gesto simbolico quando demolisce i posti di frontiera tra Iraq e Siria: infatti diffonde subito filmati dal titolo «rompere la frontiera Sykes-Picot», allusione agli accordi firmati nel 1916 da Regno unito e Francia per dividere il Medio oriente in aree di influenza, alla fine della Prima guerra mondiale. Qui entra in gioco la «storia lunga»: Daesh vuole rimettere in questione l’ordine coloniale e le sue secolari ingiustizie – argomenti di sicuro appeal per tanti giovani nella regione (e nelle banlieues europee).
Secondo Luizard non è del tutto chiaro chi eserciti il potere, nello Stato Islamico: al Baghdadi compare di rado, il volto più noto è il portavoce ufficiale Abu Mohammad al Adnani. È chiaro però che Daesh ha l’ambizione di funzionare proprio come uno stato, con un esercito (circa 30 mila combattenti in Iraq e Siria, di cui circa un terzo stranieri: arabi, ceceni, dell’Asia centrale, e anche europei), sette amministrazioni provinciali, un sistema di tassazione islamica, un potere giudiziario costituito da giudici religiosi che amministrano la sharia. Dispone di un reddito non trascurabile (il commercio di petrolio, il «bottino di guerra» sottratto alla banca di stato a Mosul, oltre 300 milioni di euro, e abbondanti donazioni private). E ha un apparato di comunicazione e propaganda di particolare efficacia. Lo Stato Islamico cerca lo «scontro di civiltà», osserva lo studioso; in un impressionante gioco di specchi «riprende a volte parola per parola le tesi di Samuel Huntington»: salvo che per loro lo scontro non è tra islam e cristianesimo, o arabità contro mondo euro-atlantico, bensì tra l’islam e il «male».
Insomma: lo Stato Islamico voleva coinvolgere l’Occidente nella sua guerra – e con il suo crescendo di orrori c’è riuscito, fa notare Luizard. Ma proprio qui sta la «trappola»: la coalizione militare anti-Daesh è nata prima di aver definito un chiaro obiettivo politico per la regione.
Il destino di Iraq e Siria è ormai legato, afferma lo studioso. Per motivi diversi, ormai entrambi gli stati sono disintegrati – ed è su quella disintegrazione che si è inserito lo Stato Islamico. Ma «la coalizione anti-Daesh non ha alcuna prospettiva politica da offrire alle popolazioni che si sono allineate allo Stato Islamico o che si sono rassegnate alla sua dominazione come un male minore», nota Luizard: «la sconfitta militare dello Stato Islamico non basterà a riportare qualche stabilità nella regione, se non saranno affrontate le cause del suo iniziale successo».
Ripercorre una storia «lunga» anche Alexandre Adler, in Le Califat du sang (Grasset, 2014). Lo Stato Islamico infatti è «il primo tentativo, il più radicale e coerente, di creare entità territoriali islamiste che si richiamano al Califfato», osserva: ma l’idea in sé non è nuova e lui ne traccia una storia. Guarda all’evoluzione interna dei movimenti dell’Islam politico più radicale, dai precursori di al Qaeda fino a Daesh. Ne rintraccia il capostipite in un universitario palestinese-giordano, Abdullah Azzam, che insegnava in Arabia Saudita e ha cercato di trasferire ai movimenti di «emancipazione islamica» le istituzioni del movimento comunista mondiale: a cominciare dall’Internazionale, con i suoi emissari politici presso i “partiti fratelli” (ad esempio mandati a islamizzare la guerriglia scoppiata in Cecenia dopo l’implosione dell’Unione sovietica); un «Komintern musulmano» a cui conferiscono i delegati della periferia nominati dalla base (al-Qaeda significa appunto «la base»); e un equivalente delle «basi rosse» di Mao, la strategia di creare «territori liberati» nella periferia del mondo islamico. Come è noto, al-Qaeda ripiega infine sull’Afghanistan, alla fine degli anni ’90, ormai sotto la guida di Osama bin Laden (dopo la rottura tra bin Laden e Azzam, che morirà assassinato).
A questa «internazionale jihadista» sono riconducibili ramificazioni regionali e anche elementi di «territorializzazione» riuscita, osserva Adler. La prima è ovviamente nel cuore del mondo islamico classico, tra il Tigri e l’Eufrate, la regione tra Iraq e Siria dove si è innestato Daesh. Un secondo fronte «territoriale» è alla frontiera tra Pakistan e Afghanistan. C’è al Qaeda nella penisola Arabica, ci sono i Tribunali islamici in Somalia, ma il terzo «fronte territoriale» è nel Maghreb, dove negli anni ’90 combattenti tornati dall’Afghanistan hanno alimentato la ribellione del Gia (Gruppo islamico armato, staccato dal Fronte islamico di salvezza quando questo ha cominciato a negoziare la pace con il governo di Algeri).
Sconfitti e isolati, gli uomini del Gia se ne andranno a sud, nei territori desertici del Sahara a cavallo di Algeria, Marocco e Mali, dandosi il nome «al-Qaeda nel Maghreb Islamico» (Aqmi). Si noti che anche questa è una frontiera di origine coloniale e per molti versi astratta, tracciata nella sabbia a tagliare una popolazione, i Tuareg, con una lunga storia di movimenti ribelli soprattutto in Mali. Grazie a loro l’Aqmi sbarca in Mali, nel 2012, legandosi alla corrente jihadista emersa tra i Tuareg dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi in Libia, già sponsor di ribellioni in tutta l’Africa subsahariana. Così al Qaeda crea il suo «nucleo territoriale» nel nord del Mali (provocando l’intervento armato francese).
La quarta «base territoriale» porta nel nord della Nigeria, dove negli anni ’90 sette province musulmane avevano proclamato la sharia: una sorta di «Pakistan nero», osserva Adler. I capi tradizionali volevano solo creare un rapporto di forza più favorevole con lo stato centrale, ma frange più popolari del movimento vanno oltre, si radicalizzano, sfuggono al controllo dell’aristocrazia locale. Così intorno al 2000 emerge Boko Haram (letteralmente: «l’istruzione occidentale è empia»), che dichiara fedeltà prima a al Qaeda e infine allo Stato islamico: una nuova base territoriale a cavallo tra Nigeria, Ciad e Camerun.
Per spiegare l’impatto dello Stato Islamico, anche Adler risale più indietro. Non a Sykes e Picot, ma allo stesso periodo: ricorda infatti che in uno dei suoi primi discorsi dopo l’11 settembre 2001, Osama bin Laden diceva che i musulmani sono in lutto dal 1923, anno in cui Mustafa Kemal ha abolito il Califfato – ovvero la linea di continuità teologica e politica con lo stato fondato dal Profeta a Medina nel 622. Il capo di al Qaeda riprendeva così una suggestione molto diffusa tra i musulmani: Adler traccia una storia dei movimenti che nel corso del ‘900 si sono ispirati al concetto di Califfato come rinascita del mondo musulmano, dall’Egitto all’India – fino allo Stato Islamico.
Secondo Adler, però, «mai gli islamisti sono stati così deboli, su scala dell’intero Oriente islamico». Daesh non può vincere, sostiene, perché la sua base territoriale non unifica nessuna «regione utile»; a parte Mosul si tratta di terre semidesertiche, senza la popolazione né la produzione agricola necessaria a costituire una «base». Inoltre, le sue finanze si stanno prosciugando, le donazioni private rallentano. Malgrado l’afflusso di volontari, lo Stato Islamico non ha più veri alleati – anche la Turchia di Erdogan comincia a chiudere le porte. Non ultimo, Daesh non può vincere perché mostra una debolezza strategica, non sa bene in che direzione andare, non può espandersi.
Daesh oggi è il più destabilizzante dei movimenti islamisti sulla scena, ragiona Adler. La scena però cambia, e la novità più importante è «il ritorno tacitamente accettato dall’Occidente dell’Iran quale potenza tutelare dell’Iraq, e forse presto anche della Siria». Lo Stato Islamico insomma è «un elemento della riconfigurazione» in corso nella regione mediorientale: ma è un elemento transitorio. È una conclusione rassicurante, quella di Adler: secondo lui «nel cuore dell’Islam le borghesie del Maghreb, arabe, turca, iraniana hanno cominciato a reagire» e oggi sono una larga maggioranza che rifiuta l’islamismo.
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