Quando Melih Gökcek occupò la poltrona di sindaco della capitale Ankara, Recep Tayyip Erdoğan si affacciava sulla scena nazionale come primo cittadino di Istanbul. Era il 1994 e la conquista delle due principali città della Turchia da parte di esponenti dell’islam politico segnava un punto di svolta negli equilibri di potere in un paese ancora largamente in mano alle élites laiche e sotto la tutela dei militari. Per ventitré anni, mentre Erdoğan ha fatto e vinto tutto, fino a diventare il simbolo stesso del suo paese, Gökçek è rimasto seduto su quella stessa poltrona. E ancora per poche ore sarà sua. Sabato, ha annunciato su Twitter – uno dei suoi mezzi di comunicazione preferiti – la lascerà.
Non è facile scindere l’immagine e l’evoluzione della capitale turca da quella del suo pittoresco e controverso primo cittadino, noto per la tenacia diretta contro gli avversari. Solo che ora, per Gökçek, gli avversari non sono più (solo) le forze progressiste o i poteri stranieri, accusati a più riprese di provocare scosse di terremoto artificiali per destabilizzare – letteralmente e non – la Turchia. L’ostacolo che ha provato a scavalcare, e che per lui si è rivelato insuperabile, è il fuoco amico. A dire no al presidente, che lo ha voluto giù dalla poltrona occupata per più d’un ventennio, alla fine non ce l’ha fatta.
Il nuovo corso del suo Akp, Erdoğan lo aveva tracciato già nel discorso congressuale a maggio, quando aveva ripreso in mano anche formalmente la guida del partito, come consentitogli dalla prima delle novità introdotte dal referendum presidenzialista del mese prima. Il capo dello stato che è potuto tornare anche capo del partito si è subito fatto capire: cambiare, per non morire. La consultazione vinta per una manciata di voti, tra contestazioni infinite per le schede senza timbro ritenute valide e una campagna referendaria assai squilibrata, era stato più di un campanello d’allarme, per uno poco abituato a rischiare di non vincere. “Fatica metallica”, l’aveva definita, con il gusto mai sopito per una declinazione metaforica della realtà: dopo tanti anni al potere, ai suoi occhi dirigenti e amministratori locali dell’Akp hanno perso smalto, cioè consenso. A Istanbul e Ankara, per dire, il voto nazionale a favore del presidenzialismo ha avuto un risultato rovesciato, quasi speculare. E a pagare, si era capito subito chi doveva essere. Il sindaco di Istanbul, il potentissimo Kadir Topbaş, l’architetto sotto la cui guida per 13 anni la metropoli sul Bosforo si è riempita di cemento e centri commerciali, diventando – per dirla con Orhan Pamuk – “più ricca ma meno libera”, se n’è andato per primo e senza sbattere la porta. Un risultato che per Erdoğan pareva foriero della solita lealtà assoluta tra i suoi: la città più grande e più importante ‘caduta’ per prima.
Non è stato così. Gli ostacoli sono spuntati, eccome. Sufficienti ad agitare un quadro politico altrimenti sonnacchioso, con gli avversari (esterni) depressi dalla sconfitta nel referendum – o in carcere già da prima – e le prossime elezioni ancora lontane. “I sindaci resistono”, titolava qualche giorno fa il quotidiano kemalista Sözcü, aggrappandosi all’impatto di un’opposizione interna a Erdoğan magari più efficace degli avversari ‘veri’. I sindaci che “resistono” sono quelli di Ankara, appunto, Bursa e Balıkesir. Meglio, erano. Perché un mese dopo Istanbul è caduta anche Bursa – quarta città del paese – con le dimissioni annunciate dal primo cittadino Recep Altepe, altra figura storica dell’islam politico. Un addio un po’ teatrale, dopo qualche depistaggio e alcuni poco convinti “continuiamo a lavorare”. Certo, gli strascichi hanno un peso. E gli stracci volati nell’Akp, pur dietro le quinte, come sempre, potrebbero dispiacere a qualche puro di spirito. Ma è il risultato che conta.
Eppure, la questione sembrava questa: salvare la poltrona, o salvarsi e basta. Erdoğan il ‘Crono’, che ha sempre divorato i suoi amici e delfini – da Gül a Davutoğlu, tutti messi o messisi da parte senza disturbare troppo – non era disposto ad ammettere obiezioni. Come suggerito in un editoriale su Hürriyet da Murat Yetkin, potrebbe esserci di peggio che perdere il posto. Meglio la pensione della galera, in fondo. Anche questo deve aver pensato Topbaş, il cui genero, l’imprenditore Ömer Faruk Kavurmaci, è accusato di legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gülen. Una ‘sindrome del genero’ che non ha risparmiato il primo cittadino di Düzce, centro sul mar Nero tra Istanbul e Ankara, le cui dimissioni sono giunte pochi giorni dopo quelle di Topbaş, e poche settimane dopo l’arresto del marito della figlia, sempre per legami con i ‘gülenisti’. Poi è stato il turno del sindaco di Niğde, nell’Anatolia centrale granaio di voti dell’Akp. E ora, nel giro di poche ore, di Bursa e Ankara.
L’opposizione denuncia ancora una volta l’assenza di un processo democratico, vista la sostituzione di sindaci scelti dal popolo con sindaci scelti dai consigli comunali, e ricorda che in fondo uno dei motti di Erdoğan, usato a suo tempo contro i giochi di palazzo, era che “chi arriva con le elezioni, deve andarsene con le elezioni”. I governanti di milioni di persone cambiati per la volontà di uno, o al più di un gruppo dirigente.
A “resistere”, chissà per quanto, rimane solo Balikesir, importante centro agricolo e industriale nella Turchia occidentale, dove il sindaco Ahmet Edip Uğur, a lungo deputato, vanta a livello locale un seguito non irrilevante e interessi imprenditoriali da difendere. Ma ormai, anche per l’ultimo samurai sembra questione di ore. Resistere a Erdoğan, da solo poi, non sembra possibile restando dentro l’Akp. Ogni braccio di ferro nel partito di Erdoğan, del resto, è sempre finito con lo stesso vincitore.
Credit: Adem Altan / AFP