Da Reset-Dialogues on Civilizations
Kilis, Turchia – In un campo profughi le giornate d’inverno sono ancora più corte. Si rientra in tenda quando fa buio, dentro e fuori, quando l’orologio non segna ancora le 17 e l’umidità comincia ad aumentare. Si resta in penombra, e l’unica luce, per chi ha la “fortuna” di averla, è quella di una piccola stufa alimentata con pezzetti di legno trovati nei dintorni, finché ce ne saranno. Qui ci si guadagna tutto, anche il riscaldamento: ce l’hanno solo le famiglie che si sono stabilite fra i teloni di plastica da più tempo, e che in qualche modo si sono già rassegnate a quella che sarà la loro vita nei prossimi mesi, probabilmente anni. Il campo alla periferia di Kilis, quello che non è stato allestito dal governo turco, è gestito direttamente da cittadini siriani che hanno investito i propri risparmi per allestirlo; non è sconfinato, ma sta crescendo.
La prima tenda, superata quella all’ingresso del campo adibita a stalla per un cavallo che ha affrontato lo stesso viaggio dei padroni e che oggi traina un carretto di legno per spostare materiali da costruzione e quanto possa servire per gli alloggi, è quella di una famiglia composta da due coppie, due sorelle sposate con due fratelli, la madre dei giovani uomini, e quattro bambini fra i cinque anni e i sei mesi di età.
Sono arrivati qui qualche mese fa, in questo campo nato nel giugno scorso e che oggi ospita circa 500 persone. Partiti da Aleppo in cinque, più i quattro bambini, dopo aver perso la casa, il negozio di frutta e verdura, e infine la macchina, abbandonata al confine, prima di entrare in Turchia.
Eppure possono ancora dirsi fortunati perché sono rimasti insieme. Una delle due coppie ha tre bambini piccoli: uno dorme in una culla, gli altri di fianco, sui tappeti stesi sulla spianata di cemento che fa da base alla tenda. La mamma si chiama Nuran e ha 18 anni. “C’è una grande differenza fra qui ed Aleppo – racconta – ma almeno qui non c’è la guerra. Certo la vita non è facile, non abbiamo acqua calda, e a volte nemmeno quella fredda. Il clima ora è rigido e il freddo si sente attraverso questi teli, mentre d’estate il caldo è soffocante”.
Nuran scavalca due file di mattoni poste in un angolo della tenda. Oltre quel muretto c’è la cucina: una bacinella d’acqua per lavare due piatti e alcune tazze da te. Si siede per terra, e fa ordine. Loro hanno la stufa, che almeno, oltre a scaldare, la sera illumina anche un po’ l’ambiente. Uno dei bimbi corre fuori, e torna con delle grosse pietre che comincia a scagliare ai piedi degli adulti finché non gli intimano di smetterla. Avrà quattro anni e di stare seduto non ne vuole sapere. Esce continuamente dalla tenda, oltrepassa il recinto di teli e tappeti che la famiglia ha creato nello spazio esterno a mo’ di veranda, scappa per strada e si nasconde fra le macchine parcheggiate. Nuran esce fuori a riprenderlo: “non è mio figlio – dice – i miei già dormono. Il più piccolo era appena nato quando siamo scappati. Avevamo un’attività che ci dava da vivere, che ci faceva stare tranquilli. Ora non abbiamo più nulla. Lui – aggiunge indicando il piccolo – è figlio della sorella di mio marito, che si è risposata ed è rimasta in Siria, e lo ha affidato a noi e alla nonna”.
Non è un caso raro: sono tanti i bimbi che non rivedranno più i genitori pur senza essere tecnicamente orfani. Le famiglie separate dalla guerra, dalle necessità, dalle scelte che sembrano le migliori per garantire una possibilità di sopravvivenza in più sono la maggioranza fra i profughi. I bambini, fra quelli che vivono in questo campo e quelli che hanno trovato rifugio nelle immediate vicinanze, dentro case fatiscenti ma in muratura, sono circa duecento. Un siriano emigrato in Germania trent’anni fa, Mahmoud, e un’italiana che già lavorava in Siria con progetti umanitari, Isabella, stanno cercando di garantirgli la possibilità di un percorso scolastico, seppure alternativo, grazie anche all’appoggio di altri profughi, ex docenti, che si mettono a disposizione per l’insegnamento.
Il maestro di inglese è appena arrivato: anche lui viene da Aleppo, dove faceva il suo lavoro finché una bomba non ha centrato casa sua e ferito suo padre, che ora non può più lavorare. Ha oltrepassato il confine per cercare di guadagnare qualcosa e mantenere la sua famiglia. Ma alle scuole turche non ha accesso. Ed è rimasto a Kilis.
“La guerra non fa solo morti e feriti – dice – ma mette in ginocchio il futuro di un popolo perché ferma l’istruzione. I bambini di oggi saranno adulti allo sbando se non si interviene. Molti di loro non sono mai entrati in una scuola, i più fortunati hanno smesso di frequentarla all’inizio della guerra o nel corso degli ultimi tre anni. Se un giorno ci sarà la pace le case si potranno anche ricostruire, ma gli anni rubati all’infanzia non torneranno”.
Il presente in un campo profughi è cristallizzato fra un passato che non esiste più, e un futuro altrettanto incerto. In una delle ultime tende in fondo al campo, prima dello sterrato dove stanno sorgendo le intelaiature di quelle nuove, ancora da montare, vive una famiglia con un ragazzo disabile. Davanti all’ingresso c’è una sedia a rotelle, e vederla lì fa pensare a cosa voglia dire scappare dalla guerra da paraplegico. Ora è ferma, anche perché quelle ruote difficilmente girano sulle pietre. Il giovane è dentro, semisdraiato per terra, e ogni tanto emette un grido. Lo rassicurano. Vorrebbe sollevarsi e parlare, ma non può fare nessuna delle due cose e si riaccascia nell’angolo in fondo, riscaldato dalla stufa. La sorella, vestito nero e unico niqab di tutto il campo, è fuori a controllare la cottura del riso, su un fornello da campo. La madre resta sulla porta, a guardare il cielo. “C’è anche un’altra bambina con problemi di salute” dice, e poi sospira.
Due giorni fa è arrivata un’altra mamma con quattro figli, e ora vive in una delle ultime tende che sono state montate. Originaria di Damasco, era già ad Aleppo da diverso tempo, a casa di parenti, finché anche lì non è diventato pericoloso. I figli andavano a scuola nella capitale, e avevano una vita normale, perché in città la guerra inizialmente si sentiva di meno. Poi un giorno la loro vita è cambiata. “E’ stato un anno e mezzo fa – racconta – hanno preso mio marito e lo hanno fatto salire di forza su un auto. Me lo hanno riferito perché c’è gente che ha assistito alla scena. Da allora è come svanito nel nulla, non abbiamo più saputo nulla. Pochi mesi dopo la stessa sorte è toccata al mio figlio maggiore, studente universitario. Non erano dalla parte del governo, e nemmeno nell’esercito siriano libero. Ancora oggi non so cosa sia successo. Ho anche un altro figlio che sta ancora a Damasco, e non può lasciare il paese”.
Prima di arrivare a Kilis, con due bambini di otto e dieci anni, e le due figlie adolescenti, aveva chiesto aiuto nel campo profughi allestito su territorio siriano, a ridosso del confine, ma non c’era posto. Ora ha una tenda per la sua famiglia. “Non c’è corrente elettrica e ogni tanto mi prestano una torcia, ma l’importante è non aver mai bisogno del bagno di notte, perché fa freddo e non si vede nulla. E l’unico bagno non è proprio vicino. I soldi che avevo in tasca sono già finiti – dice – e mi chiedo come fare a trovare lavoro qui, ma allo stesso tempo ho paura ad allontanarmi dai miei figli e lasciarli da soli tutto il giorno. Non ho nessuno che possa occuparsi di loro e devo farlo io. Ma in questo momento non posso nemmeno permettermi una ricarica del telefono per contattare le mie sorelle rimaste ad Aleppo: non so nemmeno se sono ancora vive”.
La notte in cui sono partiti gli spari si sentivano più vicino del solito: si sono vestiti e sono andati via. “Mi hanno detto che se volevo attraversare il confine avrei avuto bisogno del passaporto ma nessuno di noi lo aveva. In alternativa si poteva passare attraverso un tunnel, e abbiamo fatto quella strada. E ora siamo qui”.
Da quando è scoppiata la guerra in Siria, Kilis è diventata una città perfettamente bilingue, turco e arabo, e la sua popolazione di 85 mila persone è raddoppiata, anche se i profughi registrati nella municipalità dall’UNCHR sono intorno ai 45 mila. Sono nate nuove piccole attività commerciali di cittadini siriani, e nuove case, oltre ai campi attrezzati con le tende e la sorveglianza del governo turco, e quelli spontanei.
Subito fuori dal centro, dal lato opposto del campo, si trova uno dei vecchi varchi doganali di passaggio per la Siria. Sembra chiuso da secoli, con un cancello arrugginito e le sterpaglie cresciute e poi seccate intorno alle sbarre del casello. Eppure quel varco viene ancora aperto, di tanto in tanto, e lo testimoniano i camion parcheggiati lungo due km di strada, carichi di materiale edile per la ricostruzione, in attesa di approdare in Siria, come se ogni giorno potesse essere quello buono.
sembra di viverci dentro questo campo profughi…. e noi continuiamo a ripiegarci su noi stessi e continuiamo a parlare sempre e soltanto del nostro piccolo mondo, corrotto e avido, mentre altrove si vive di niente e dove la solidarietà resta ancora un valore.