Da Reset-Dialogues on Civilizations
Ora una legge c’è. D’ora in poi la costruzione e la ristrutturazione delle chiese in Egitto saranno regolate da norme che colmano una lacuna secolare. Una mancanza che ha avuto diversi effetti collaterali, in primis una serie di violenti scontri settari tra la maggioranza musulmana e la minoranza copta che vive lungo il Nilo da ben prima dell’arrivo dei seguaci di Maometto.
Anche se accolta da polemiche, la legge è di per sé storica. Ad annunciarla era stata già la nuova Costituzione approvata dopo il ritorno dei militari al potere, nel 2014. L’articolo 235 obbligava la prima legislatura a legiferare su questo tema, visto che gli unici vincoli burocratici in materia erano le cosiddette “dieci regole” di epoca ottomana. Era il 1934 e le norme in questione vietarono, tra le altre cose, la costruzione di nuove chiese vicino alle scuole, ai canali, agli edifici governativi, alle ferrovie e alle aree residenziali. In diverse occasioni, l’applicazione rigida di queste norme ha di fatto impedito la costruzione di chiese in città e paesi abitati dai cristiani, soprattutto nelle aree rurali dell’Alto Egitto.
Dallo scorso 30 agosto però, la nuova legge obbliga i governatori locali (dopo che in una prima bozza gli offriva solo la possibilità) a rispondere alle richieste di costruzione o ristrutturazione entro quattro mesi. D’ora in poi, ogni diniego dovrà essere motivato, adducendo, per esempio, questioni di sicurezza pubblica. E per le chiese già costruite senza permesso (in molti casi quelle al centro degli scontri) è anche prevista una sanatoria, con effetto retroattivo.
A giustificare l’attributo storico dato a questa legge, è anche il processo attraverso il quale vi si è giunti. I nove articoli in questione sono infatti il frutto del lavoro congiunto, per la prima volta, di Stato, comunità musulmana e Chiesa cristiana. O per meglio dire, di chiese cristiane, visto che, nel corso del dibattito, le posizioni dei copti ortodossi sono state diverse da quelle dei cattolici. E differenti sono state anche le reazioni. Anche se tutti i cristiani parlano di un progresso, mentre autorevoli esponenti del patriarcato ortodosso descrivono la legge come un passo nella giusta direzione, i cattolici si limitano a bollarla come la migliore attualmente raggiungibile, anche se certamente non esemplare. I più critici si trovano però nelle fila dell’Islam radicale, la cui voce è ben rappresentata dai salafiti. Seconda questa compagine, visto che l’Islam è – da Costituzione- la religione di stato, tale questione non doveva neanche essere affrontata.
Tra questi due estremi c’è la posizione più analitica delle Organizzazioni non governative – da anni in lotta contro il nuovo regime, anche a causa di una legge che ha ristretto la sfera pubblica e, di conseguenza, il loro raggio d’azione. L’Egyptian Initiative for Personal Rights, Eipr, ha espresso la sua profonda preoccupazione riguardo la repentina approvazione della legge da parte del Parlamento, avvenuta in appena tre giorni, dopo che lo stesso governo aveva presentato la proposta all’Assemblea senza alcun dibattito. Oltre alla forma, a essere criticata è soprattutto la sostanza. L’Eipr teme infatti che la legge intacchi i fondamentali diritti costituzionali, privando le future generazioni delle loro libertà e dei loro diritti. Una legge che regola la costruzione di luoghi di culto dovrebbe mettere tutti i cittadini sullo stesso piano, senza fare differenze basate sulla religione professata. Ma così, dice Eipr, non sarà visto che mentre da un lato lo Stato permette la costruzione di moschee attraverso una revisione diretta del Ministero delle Sovvenzioni, questo impone condizioni aggiuntive sulle chiese, in primis l’autorizzazione del governatore. La legge è quindi accusata di fondarsi su una logica discriminatoria e settaria. Nei fatti, quello più criticato è l’art.2 secondo il quale “lo spazio deputato alla chiesa che necessita di un permesso per la costruzione (…) deve essere proporzionale al numero e al bisogno dei cittadini della setta cristiana nell’area nella quale la si intende costruire, pur tenendo contro dell’aumento della popolazione locale” . Il riferimento al numero dei cristiani è di per sè problematico. Anche se convenzionalmente si dice che questi rappresentano il 10% della popolazione egiziana, tali affermazioni non sono surrogate da dati recenti. Un censimento potrebbe fornire un quadro più dettagliato, ma solo menzionarlo fa nascere una diatriba. In primis tra le fila dei cristiani, il gruppo che teme di più questa conta.
Oltre all’Eipr, a esporsi contro la legge sono stati diversi attivisti che la ritengono un dono dei militari alla chiesa copta per ripagarla del sostegno ricevuto sin dal giorno del golpe del luglio 2013. Un supporto tutt’altro che originale, visto che superata la paura di un “inverno islamista”, la Chiesa è tornata a sostenere il regime con modalità simili a quelle già utilizzate nell’epoca mubarakiana. Questo però non ha garantito la sua incolumità, né quella dei suoi fedeli. A mostrarlo sono stati anche gli ultimi incidenti avvenuti nella provincia di Minya dove, lo scorso maggio, vi è stata una faida tra famiglie di fede diversa che ha portato alla distruzione di diverse abitazioni cristiane. Una violenza che per anni è stata alimentata proprio dalla disputa per la costruzione di nuove chiese, storicamente uno dei più comuni – insieme a quello delle conversioni- casus belli degli scontri settari.
La speranza è che l’entrata in vigore di questa legge riesca almeno a ridurre le occasioni di scontro. Un clima più disteso potrebbe rendere il terreno egiziano più fertile ad altri, necessari, passi in avanti.