Le strade di Parigi in fiamme, la democrazia inglese sconvolta dalla Brexit e incapace di guidarla verso un porto sicuro, l’Italia preda dei populisti tentata di “disfare” l’Unione Europea dall’interno. Che sta succedendo alla democrazia europea, a due mesi dall’appuntamento elettorale cruciale? Chi e quando ha permesso un tale deterioramento della sua qualità ed efficacia?
Dopo il successo del convegno The Trap of Polarization alla Columbia University, Sheri Berman, politologa del Barnard College e commentatrice su numerose riviste americane, riflette con ResetDoc su questi temi e addita la causa numero uno del grande ripiegamento democratico: lo sfaldamento dei partiti, e il crollo della loro missione di “selezione” delle idee, delle informazioni e delle proposte politiche, prima ancora che delle classi dirigenti.
Sheri Berman, nel suo ultimo libro Democracy and dictatorship lei affronta la questione dell’attuale crisi della democrazia in Occidente in una prospettiva storica di lungo termine. A che punto della traiettoria ci troviamo esattamente?
Quello che stiamo attraversando dal mio punto di vista è ciò che gli storici definiscono un interregno, un tempo “sospeso” a cavallo tra due epoche. Questo tipo di periodi sono tipicamente instabili perché si è nel pieno del collasso di un vecchio ordine, ma al contempo rimane incerto esattamente che cosa lo rimpiazzerà. Oggi tutte le istituzioni e i meccanismi che hanno funzionato dal dopoguerra a livello nazionale, regionale e internazionale sono rimessi completamente in discussione. Non è affatto detto che scompariranno, ma certamente cambieranno rispetto a come eravamo abituati a concepirli. Per ora, però, siamo nell’interregno del disordine.
Per anni in Europa come negli Usa si è discusso dell’importanza del consolidamento della democrazia in altre aree del mondo. Oggi ci ritroviamo nello scenario esattamente opposto, quello di un progressivo deconsolidamento della democrazia proprio a casa nostra. Come è possibile che dei sistemi politici che ritenevamo tanto solidi abbiano fallito nel reagire ai cambiamenti?
Ci sono molte ragioni, ma io credo che se guardiamo all’Europa i due nodi principali da osservare siano da un lato il ruolo dei partiti, dall’altro quello dell’Unione Europea. È noto che i partiti politici tradizionali – e in particolare quelli di sinistra – hanno vissuto un declino massiccio nell’ultima generazione in termini di iscrizioni, di legami con la società civile, perfino di legami coi loro stessi militanti. Nel Novecento, essi agivano come dei “veicoli politici” per tutti coloro che si sentivano a disagio, svantaggiati, lasciati indietro. Fungevano da cinghia di trasmissione degli input dai cittadini alle classi dirigenti, ma anche nel senso opposto di informazioni di ritorno dalle élites verso i cittadini. Questo ruolo cruciale si è indebolito gravemente negli ultimi decenni. Col declino della capacità di quei partiti di farsi carico dei loro bisogni, quegli elettori sono stati lasciati andare alla deriva, e questo ha creato l’opportunità per nuove tipologie di forze di tirarli a bordo delle loro “scialuppe di salvataggio”: ed è esattamente ciò che hanno fatto negli ultimi anni i partiti populisti. L’altro nodo è quello legato alla costruzione europea. Anche lasciando da parte il dibattito senza fine sul deficit democratico, è evidente che negli ultimi decenni un numero crescente di competenze è stato tolto dalle mani degli eletti a livello nazionale e trasferito a livello europeo. Ora uno dei punti di forza della democrazia è che quando vengono prese cattive decisioni, o meglio decisioni che agli elettori non piacciono, questi hanno sempre l’opportunità di dire «Ok, questa volta Tizio mi ha davvero deluso, al prossimo turno voterò per Caio»; ma a livello europeo questo è più difficile da fare, perché il legame tra il risultato delle elezioni europee e l’esito politico è molto meno diretto. Perciò trasferendo più competenze all’Ue, si rimuove dal mio punto di vista uno dei grandi vantaggi della democrazia: la capacità di correggere gli errori, di offrire agli elettori l’opportunità di esprimere il proprio non gradimento delle scelte, rafforzando così il binomio “magico” tra legittimità ed efficacia delle istituzioni.
A rischiare di essere travolti in questo clima di nuove proteste popolari, paradossalmente, sono in particolare i partiti di tradizione social-democratica. Com’è possibile che essi non siano più in grado di formulare risposte giudicate credibili a problemi che dovrebbero costituire il pane della sinistra?
Credo che il punto di partenza per rispondere a questa domanda vada cercato nella decisione di molti di questi partiti nell’ultimo scorcio del Ventesimo secolo di cambiare la propria identità spostandosi verso il centro sui temi economici. A posteriori per noi è facile criticare tale decisione, ma è chiaro che nel periodo di travolgente speranza dopo la caduta del Muro di Berlino essa parve sensata, quasi ineluttabile, ai leader di quei partiti. Il risultato tuttavia è stato che ovviamente quando le cose hanno iniziato ad andare male – la crescita a rallentare, la disoccupazione ad aumentare, le disuguaglianze a esplodere – questi partiti si sono trovati impossibilitati a catturare la frustrazione popolare, e anzi sono stati associati nell’immaginario collettivo a molto delle politiche additate come causa dei problemi. E questo da un lato ha aperto uno spazio di cui i partiti populisti hanno approfittato, se necessario modificando ad hoc rapidamente la loro offerta politica; dall’altro questa relativa “omogeneizzazione” in campo economico ha creato per i nuovi partiti enormi incentivi a concentrare i propri appelli agli elettori sui temi sociali e culturali. E questi temi sono sfruttati in maniera molto più incisiva dalla destra che dalla sinistra.
«America First», «Prima gli italiani», «Oui, la France». Il vecchio adagio It’s the economy, stupid andrebbe insomma aggiornato con It’s the nation, stupid.
Oppure It’s the culture, stupid: sì, direi proprio di sì. E questa novità di certo non promette nulla di buono per i partiti socialdemocratici, che non hanno alcuna speranza di competere efficacemente su questi temi: anche perché su di essi pagano la concorrenza a sinistra di formazioni più forti su questi aspetti come i Verdi o simili, oltre a quella dei partiti populisti. Questa è insomma una dinamica perdente per la sinistra tradizionale. Ma, aggiungerei io, è uno sviluppo malsano per la democrazia stessa.
Eppure in termini di partecipazione democratica fenomeni come il Movimento 5 Stelle in Italia o i Gilet Gialli in Francia dovrebbero destare quanto meno qualche interesse. Non ci sono in essi dei germi salutari di risveglio della società civile?
Per come io la intendo, la società civile non è di per sé né buona né cattiva: tutto dipende dal contesto. Le proteste della società civile sono per definizione parte del processo democratico, ma la via primaria tramite cui l’insoddisfazione dovrebbe essere espressa, e le domande formulate, dovrebbe essere il processo politico, i partiti politici, il voto. Quando vediamo questa specie di esplosione di rabbia politica delle persone sulle strade, questo mi pare se mai il riflesso di un sistema politico che non funziona a dovere. Dopodiché, se questi movimenti di protesta o nuovi gruppi della società civile saranno integrati nel processo democratico, le loro richieste e la loro mobilitazione canalizzate tramite esso, allora sì, questo sarà salutare. Se invece le nostre istituzioni politiche non saranno in grado di rispondere a queste nuove sollecitazioni, nel lungo termine le cose non potranno che peggiorare.
Photo: Alberto Pizzoli/AFP