Nella biblioteca del seminario cattolico di Scutari vengono conservati alcuni dei pochi libri che scamparono al rogo appiccato dai comunisti nel primissimo dopoguerra. Sono protetti da custodie di plastica. Leonardo Falco e Mark Pashkja, il rettore del seminario e un giovane sacerdote, appena ordinato, le rimuovono con attenzione per mostrare i volumi. Sul tavolo su cui li poggiano cade qualche pezzetto di carta incenerita.
Scutari, nel nord, è una città importante per i cattolici dell’Albania. È centro d’irradiazione e simbolo di martirio. Molti dei trentotto religiosi uccisi durante l’epoca comunista e beatificati nel 2016 dal Vaticano servirono proprio in questa diocesi. Uno di loro, il gesuita Giovanni Fausti, fu rettore del seminario. Arrestato alla fine del 1945, venne processato, condannato a morte e infine fucilato nel marzo 1946.
Padre Fausti è un martire, ma fu anche un vero pioniere del dialogo tra cristiani e musulmani. Studiò l’Islam, coltivò rapporti con i suoi esponenti, lavorò affinché si creasse interscambio.
Con la sua opera, questo gesuita originario del bresciano ha fortemente contribuito a dare linfa al modello di rispetto e tolleranza tra religioni che caratterizza l’Albania. Musulmani (sunniti e bektashi) e cristiani (ortodossi e cattolici) vantano relazioni equilibrate e pacifiche. E ciò, oltre ad avere valore di per sé, ne assume di ulteriore se si considera quanto la religione al giorno d’oggi sia spesso, involontariamente o meno, fattore di scomposizione e frattura. L’Albania, grazie a questo modello plurale e disteso, è un caso scuola apprezzato e studiato. Papa Francesco vi si è recato in viaggio nel 2014, anche con l’obiettivo di rendere omaggio a questo tessuto multiculturale.
Del ruolo di Padre Fausti ce ne parla Mark Pashkja, che durante la sua formazione in seminario ha studiato il percorso del gesuita. “Quando giunse in Albania alla fine degli anni ’20, non molto tempo dopo l’indipendenza del 1912, che sancì la fine del lungo dominio ottomano, comprese immediatamente che lo studio dell’Islam gli avrebbe consentito di comprendere la società albanese, in maggioranza musulmana”. Padre Fausti era convinto che la condizione dei cattolici, una condizione di minoranza, sarebbe stata meglio tutelata in presenza di uno sforzo per la reciproca conoscenza. “Ebbe l’intuizione di cominciare dall’analisi della Bibbia e del Corano, e dai punti di contatto tra le due scritture: la figura di Abramo e dei profeti, oppure il ruolo attribuito a Gesù e Maria nel Corano. Ciò fu il punto di partenza per avere dialogo e incontro con l’Islam”, afferma Pashkja. Per questo giovane sacerdote, padre Fausti fu profetico. “Costruì qualcosa di notevole per le generazioni future e per l’equilibrio multireligioso. Indicò una strada da seguire, e lo fece sulla base non di principi astratti, ma di una ricerca razionale”.
Importante, forse anche di più, fu anche la scelta di separare nettamente Stato e religione, voluta dai padri fondatori dell’Albania. “I possibili contrasti tra i gruppi religiosi potevano incrinare l’unità nazionale, e così quello albanese si configurò dal principio come uno Stato laico”, spiega Artur Nura, corrispondente di Radio Radicale dall’Albania, aggiungendo che dopo la caduta del regime comunista queste caratteristiche sono tornate a galla, riaffermandosi.
Il comunismo combatté duramente le fedi. Molti religiosi, di tutte le confessioni, furono perseguitati. I luoghi di culto vennero distrutti o convertiti in cinema, depositi agricoli e altro ancora. Il seminario di Scutari fu chiuso, ovviamente. È stato riaperto solamente nel 1992. Don Leonardo Falco riferisce che oltre al compito chiave, che è quello della formazione, le attività tengono conto della lezione di padre Fausti (“respiriamo ancora la sua presenza”, dice il rettore) e del contesto plurale del Paese. “Abbiamo buoni rapporti di collaborazione con l’Accademia islamica di Tirana e con il seminario ortodosso di Durazzo E ogni anno promuoviamo delle giornate comuni di studio, in cui affrontiamo un tema declinandolo nelle rispettive prospettive e cercando una superficie di contatto. L’anno scorso il tema è stato il ruolo della donna”.
Per Dorian Demetja, che presso la Comunità islamica guida il Dipartimento per i rapporti tra le fedi, i buoni rapporti tra le confessioni sono anche merito degli ottomani. Quando assunsero il controllo del Paese, molti albanesi si convertirono all’Islam, ma chi non lo fece non subì persecuzioni o particolari atti di intolleranza. Il quadro religioso, pertanto, rimase fluido e composito, riflette Demetja, incontrato nel suo ufficio di Tirana.
Pure oggi è così, e tanti sono gli esempi che ne danno conto, non solo sotto il profilo istituzionale dei rapporti tra le fedi. Il modello albanese è visibile anche nel vissuto quotidiano. A Derven, a nord di Tirana, c’è una piccola chiesetta cattolica ricostruita anche grazie al contributo della popolazione islamica locale. Ed è un musulmano che fa da guardiano all’edificio di culto. A Lac, sempre nel nord, il santuario francescano di Sant’Antonio è un luogo solo formalmente cattolico. Tutti gli albanesi, di tutte le fedi, vanno in pellegrinaggio in questo posto, aggrappato sulla cima di un’altura. A Leskovic, al confine con la Grecia, c’è un santuario frequentato sia da musulmani che da cristiani. Ed è per via di questo clima di tolleranza e apertura, che ha radici antiche, che i bektashi, una confraternita islamica tendente allo sciismo, hanno potuto trovare una nuova casa qui in Albania, dopo che furono cacciati da Costantinopoli con l’accusa di eresia. Ed è per le stesse ragioni che nessun ebreo fu consegnato ai nazisti, caso unico in Europa. Furono protetti dalle famiglie del posto.
A volte ci sono incomprensioni e contese, tuttavia. A Scutari, qualche anno fa, i musulmani se la presero non poco per l’edificazione di una statua in onore di Madre Teresa, ma poi la questione si sbloccò, anche grazie a un’intesa per cui ognuna delle religioni albanesi si impegnava a riconoscere la santa come un simbolo nazionale, e non solo della comunità cattolica.
“Una foresta non diventa più bella se c’è solo un tipo di alberi. È bella quando gli alberi sono tanti, e ognuno è libero di svilupparsi”. È con queste parole che l’arcivescovo Anastasios Yannoulatos, leader della chiesa autocefala ortodossa albanese, sintetizza il senso del modello albanese.
Ed proprio con l’arcivescovo, che ci riceve a Tirana, che chiudiamo questa ricognizione nel modello albanese. È una fortuna che ci sia, ma bisogna sempre lavorare per dare a esso continuità, sostiene Yannoulatos. “Non appena è crollato il comunismo abbiamo iniziato un dialogo che non è teologico, ma è un dialogo di vita. I risultati sono molto buoni. Qui prevale la tolleranza, anche se devo dire che non mi piace questa parola: nella sua essenza è arrogante. Meglio dire rispetto”.