Per cinque giorni Firenze si è trasformata nella capitale del cinema mediorientale, con la quarta edizione di Middle East Now (3-8 aprile 2013), festival internazionale di cinema, documentari, arte contemporanea, incontri ed eventi tutti incentrati sulla cultura mediorientale e nordafricana. Inserito nel cartellone del progetto Primavera di cinema orientale, il festival ha ospitato più di quaranta film, tra lungometraggi e corti, per la maggior parte presentati in anteprima nazionale. Un modo per avvicinare il grande pubblico alla cultura di questi Paesi, per sentire la loro voce e lasciarsi raccontare le loro storie senza il filtro occidentale. Middle East Now si è posto proprio questo obiettivo: far conoscere la cultura e la società mediorientali oltre i pregiudizi e lo schermo dei media internazionali.
La faccia più pop del Medio Oriente è stata protagonista delle mostre di Rana Salam, graphic artist libanese, e di Hassan Hajjaj, fotografo e designer marocchino, spesso presentato come l’Andy Warhol del mondo arabo. Mentre nei film nelle sale cinematografiche che hanno proiettato i film – in concorso per il Middle East Now Award, premio del pubblico, istituito quest’anno per la prima volta – si è imposto il femminile mediorientale che i più non si sarebbero aspettati, come quello delle Boxing Girls of Kabul (di Ariel Nasr – Canada, Afghanistan, 2012), delle donne siriane che lottano per la libertà nel loro Paese (True stories of Love, Life, Death and sometimes Revolution di Nidal Hassan – Siria, Danimarca, 2012) e del vincitore del premio finale, Facing Mirrors (di Negar Azarbayjani – Iran, Germania, 2012).
Facing Mirrors di Negar Azarbayjani (Iran, Germania, 2011, 102′)
Già vincitrice di altri premi internazionali prima di questo Middle East Now Award, Facing Mirrors è l’opera d’esordio della regista iraniana Negar Azarbayjani. La pellicola racconta la storia, toccante e singolare, dell’amicizia tra Rana – giovane madre che, per andare avanti e sanare i debiti della sua famiglia, guida il taxi del marito, carcerato – e Adineh – transgender in fuga da un padre che non la comprende, imponendole un matrimonio di convenienza che possa tacere lo scandalo. Da un’iniziale diffidenza per questa fuggitiva dai tratti mascolini, Rana si affezionerà progressivamente sempre più ad Adineh, sfidando i pregiudizi della società e l’ostilità della famiglia, fino ad aiutarla in un gesto liberatorio, definitivo e di ribellione.
Facing Mirrors offre così uno sguardo determinato al tema dei transessualità in Iran, dove la legge consente le operazioni per cambiare il proprio sesso, ma sono spesso le famiglie (e i padri, in modo particolare) a opporsi. E il suo messaggio è reso ancora più carico dalla rosa di donne che ha lavorato al film – le due attrici protagoniste, la regista e soprattutto la produttrice Fereshteh Taerpour e dalle sue parole, a conclusione del film: “Le donne se vogliono una cosa, trovano sempre il modo di ottenerla”.
Casablanca Mon Amour di John Slattery (Usa, Marocco, 2012, 78′)
Casablanca Mon Amour è un roadmovie divertente e riflessivo, diretto da John Slattery. Un po’ fiction, un po’ documentario, il viaggio dei giovani Abdel e Hassan da Casablanca a Jerf – e ritorno – si trasforma in un continuo gioco di specchi tra Hollywood e il Marocco. I due amici visitano le centinaia di location marocchine scelte dall’industria cinematografica americana per girare film e colossal come Il gladiatore, L’ultima tentazione di Cristo o Guerre Stellari – 26 di questi, solo nella città storica di Meknes. Interrogando chi incontrano nella propria strada su film e attori preferiti, Abdel e Hassan, registrano la penetrazione di un’ Hollywood simbolo dell’Occidente e della sua cultura, nell’ immaginario marocchino, con le donne colpite da Titanic e gli uomini appassionati di Rambo, Charles Bronson e Jean Claude Van Damme. Un po’ di amarezza prende però i due ragazzi – e il pubblico – nel ricordare lo sguardo con cui Hollywood ha, per contro, sempre guardato al mondo arabo, pieno di harem, terroristi e “towelhead”; spesso scelti come alternativa agli indiani selvaggi del Far West. “Dal 1896 al 2000 – ha spiegato il regista alla fine del film – oltre un migliaio di film americani hanno mostrato personaggi arabi o musulmani. Di questi, solo 12 film li dipingevano come personaggi positivi, 52 erano neutri e in più di 900 arabi e musulmani erano ritratti negativamente”.
Kaloo School di Sahra Mosawi (Afghanistan, UK, 2012, 10′)
Gli occhi grandi di Fakhere, l’innocenza dei suoi nove anni e la sua fame di sapere. Quella offerta da Kaloo School è una prospettiva dell’Afghanistan insolita per la maggior parte del mondo Occidentale. L’occupazione finisce in qualche accenno, la povertà e la fatica di questo Paese ad emanciparsi rimangono sullo sfondo. Nei dieci minuti di questo breve docufilm, in primo piano ci sono i bambini di Kaloo, i loro sorrisi e il loro entusiasmo nelle ore di cammino attraverso gli splendidi paesaggi afghani, che ogni giorno percorrono per andare a scuola.
Presentato per la prima volta in Italia, nell’ambito della quarta edizione del festival Film Middle East Now che si è tenuta a Firenze dal 3 all’8 aprile 2013, Kaloo School è il primo documentario della giovane regista afghana Sahra Mosawi. “L’ho fatto per me stessa, perché amo i bambini” dice Sahra che ha impiegato più di un anno per portare a termine il suo progetto, mentre concludeva gli studi universitari nell’Essex. Nel film, la sue cinepresa segue Fakhere dalla mattina presto, quando porta il gregge di pecore al pascolo, fino alla scuola dove lei e i suoi compagni imparano, con entusiasmo e curiosità, a leggere e far di conto. “Non molte bambine hanno la possibilità di finire la scuola secondaria. E quelle che non riescono a finire neppure quella di primo grado restano a casa”, spiega il documentario.
In Afghanistan la percentuale di analfabeti è altissima, specie tra le donne: tra di loro, appena il 5 percento riesce ad avere un’istruzione ma è un dato che cala ulteriormente nelle regioni minori. Ma dal documentario di Sahra Mosawi emerge il desiderio di un futuro diverso. Nelle gambe di Fakhere non manca la voglia di camminare per guadagnarsi un domani. E non c’è accenno di indecisione nelle sue parole, quando dice: “Mi piace andare a scuola, non mi piace guardare le pecore”.