Rifugiati, ecco la mia proposta
per far fronte alla crisi europea

Articolo pubblicato su Dissent il 4 settembre 2015

Sono le decine di migliaia di rifugiati che chiedono di entrare nel vecchio continente a patire nella maniera più dolorosa la crisi dell’Europa di oggi. Queste persone sono davvero in una situazione di disperato bisogno di aiuto e molte di loro moriranno qualora i loro bisogni non saranno adeguatamente riconosciuti e presi in considerazione. Ma questa è una crisi che tocca anche i popoli europei: spetta a loro, nella fase attuale, di riconoscere e dare risposte a questi bisogni. Se non lo facessero, l’idea stessa dell’Europa sarebbe destinata a perire. Il sogno di un nuovo tipo di unione (1) fondata intorno al bene comune e alla reciproca responsabilità, così come intorno ai valori liberali, svanirà una volta per tutte e al nostro risveglio ci accoglierà una giornata assai cupa.

Nel 1938, in una crisi dell’Europa più lontana nel tempo rispetto a quella odierna, i rifugiati erano alle porte della Francia e chiedevano di entrare a gran voce. Fu allora che Leon Blum, il leader del Partito Socialista e il Primo Ministro del breve governo del Fronte Popolare del 1936, pronunciò un discorso di cui oggi urge riprendere le parole più importanti:

Può darsi che la vostra casa sia già piena, ma quando busseranno alla vostra porta, voi aprirete e non domanderete loro i certificati di nascita o il libretto sanitario.

Che gioia sarebbe ascoltare oggi un leader socialista europeo parlare in questo modo! François Hollande ci è andato vicino: “[Accogliere] è un dovere della Francia, dove il diritto di asilo è parte integrante dell’anima, della carne della nazione…” Dopodiché, però, il Presidente francese ha annunciato che la Francia programma di ospitare 24 mila rifugiati nei prossimi due anni, troppo pochi se pensiamo all’ingente numero di coloro che bussano alla porta.

Blum nel 1938 continuava affermando che i rifugiati non si sarebbero fermati per forza in Francia. Occorreva infatti una soluzione di carattere generale, così come oggi, che potesse poi consentire il ritorno di queste persone ai loro paesi di origine e che suddividesse tra i diversi Stati l’onere dell’accoglienza, in quanto l’onere di provvedere ai rifugiati andava condiviso. Ma allora queste persone necessitavano di un posto, ed anche oggi necessitano di un posto: “Possiamo rifiutarci di dare loro rifugio per una notte?” si domandava allora Blum…

Nell’Europa di oggi soltanto i tedeschi e gli svedesi si sono opposti apertamente al rifiuto di ospitare queste persone; in moltissimi hanno già raggiunto l’Italia e la Grecia, paesi che vorrebbero aiutare i rifugiati nel loro percorso verso altre destinazioni. Tutta l’Unione Europea è ancora una volta, come negli anni Trenta, un mondo di frontiere e rifiuti. Di fronte alla condizione disperata dei migranti, gli Stati europei (ed anche gli altri Stati, ma ci tornerò più avanti) hanno davanti una scelta chiara: possono contribuire ad arginare la marea, opponendosi alla povertà, alle guerre civili ed ai governi autocratici che generano queste situazioni, oppure devono ospitare le persone che fuggono sia per questa notte sia per le molte altre notti a venire. Ritengo che non sia proprio una scelta, in quanto sotto certi profili entrambe le ipotesi appaiono moralmente e politicamente necessarie. Consentitemi allora di dire brevemente qualcosa su entrambe queste ipotesi, partendo dalla seconda.

L’immenso compito di fornire un rifugio immediato sta attualmente ricadendo soprattutto su paesi quali la Giordania, il Libano e la Turchia, dove diversi milioni di rifugiati sono ora ospitati o accolti in rifugi improvvisati con cibo, igiene ed assistenza sanitaria di scarsa o scarsissima qualità. Nonostante questo i costi sono enormi ed anche se i paesi più ricchi non vogliono vedere coloro che scappano ai propri confini, non hanno nondimeno fatto nulla per aiutarli dove si trovano adesso, o sicuramente non hanno fatto abbastanza. Uomini, donne e bambini lasciano questi campi intraprendendo viaggi molto pericolosi verso le frontiere europee, che è impossibile attraversare in modo legale. Ecco perché gli attraversamenti illegali diventano un grande affare, che ha tuttavia delle conseguenze nefaste, come tutti gli affari del nostro mondo neoliberale. Ci scuotono numerose storie di ferimenti ed uccisioni perpetrati dai trafficanti, ma non destano comunque clamore sufficiente. Del resto le persone non smetteranno di arrivare e per questo occorre rendere legali gli attraversamenti e fornire aiuto a seconda delle possibilità dei paesi interessati dal fenomeno. Anche se la tua casa è già piena non importa.

I leader europei, a partire da Angela Merkel stanno discutendo di suddividere delle quote da assegnare a ciascun Stato membro dell’Unione Europea: questa quota di rifugiati va a te, questa quota a te… I numeri di cui essi parlano sono comunque troppo esigui e nel momento in cui scrivo non sono state prese ancora decisioni vincolanti. L’Islanda ha fatto qualcosa di meglio.

Che dire poi degli Stati Uniti dove la torcia della Libertà sembra lì per accogliere le masse accalcate? Non sembra che oggi vi sia tutta questa accoglienza. Abbiamo accolto pochissimi rifugiati dall’Iraq e pochissime persone che hanno collaborato ai tempi dell’occupazione promossa dagli Stati Uniti e le cui vite erano quindi in pericolo. Ancora meno sono coloro che abbiamo accolto dalla Siria*. I nostri politici sono tutti presi dalle discussioni sulle modalità attraverso cui tener fuori dai nostri confini i cittadini messicani, perché mai dovrebbero aprire le porte a persone che provengono da così lontano? E invece dovremmo assistere l’Europa e addirittura metterla in imbarazzo, accogliendo un numero significativo di persone, soprattutto quelle che provengono da quelle parti del mondo che abbiamo contribuito a mandare in rovina. Forse per noi sarebbe più facile, quale società fondata sull’immigrazione, piuttosto che per gli europei che continuano, anche se a torto, a pensare alla propria terra come ad un insieme del tutto omogeneo di popolazioni dalle antiche origini.

In un recente editoriale del New York Times, Ross Douthat ha consigliato prudenza: coloro che spingono per aprire le porte “sono ciechi davanti alle cristallizzazioni della cultura, alle sfide dell’assimilazione ed ai pericoli di un’inevitabile reazione violenta”. Senz’altro ha ragione riguardo alle cristallizzazioni, alle sfide ed a questo pericolo, ma cosa aggiungere? Negli anni Quaranta dell’Ottocento gli Stati Uniti hanno accolto decine di migliaia di contadini cattolici irlandesi che fuggivano dalla grande carestia delle patate, questi erano immigrati che nell’ottica dei nostri teorici del “nativismo”, non avrebbero mai imparato le virtù della cittadinanza democratica, giacché essa sarebbe stata appannaggio dei soli protestanti. È senz’altro vero che abbiamo assistito alla reazione del partito Know-Nothing che per qualche tempo si è guadagnato la maggioranza in alcuni distretti del Nord-Est del paese. Ma ci sono volte in cui è meglio affrontare i pericoli piuttosto che evitarli.

Che cosa dire degli altri paesi in cui forse questi pericoli avrebbero un’intensità minore rispetto all’Europa? L’India e la Cina sono già sufficientemente popolate, ma l’Australia, la Nuova Zelanda, Il Canada, il Brasile e l’Argentina sono paesi che avrebbero sicuramente abbastanza spazio per ospitare un numero cospicuo di persone disperate. I paesi che sono direttamente responsabili del disastro siriano – tra cui in primo luogo l’Iran, la Russia e l’Arabia Saudita – non si sono invece fatti carico di nessuna delle vittime, mentre dovrebbero accogliere i siriani a migliaia. Dopotutto anche in questi paesi, così come in quelli occidentali, l’arrivo di nuovi immigrati potrebbe sul lungo periodo rafforzare l’economia e rilanciare la cultura. Inoltre, sicuramente nel momento in cui dovesse tornare la pace nelle loro terre, se mai pace ci sarà, molti rifugiati torneranno a casa.

C’è quindi qualche modo per portare la pace in queste terre o quantomeno di ridurre la povertà e di rimpiazzare i governanti autocratici? Perché oltre ad accogliere, ci tocca anche la responsabilità di aiutare queste persone nelle loro terre di provenienza. Anzitutto gli europei e gli americani hanno il dovere di accoglierli perché non li hanno aiutati nelle loro patrie ed anzi spesso hanno peggiorato i loro problemi, e invece sarebbe buona idea cambiare le condizioni che spingono così tanti all’esilio.

Nessuno lascia la sua casa di buona voglia, ci vuole un disastro a causare un numero ingente di rifugiati alla ricerca di un posto migliore in cui restare anche solo per un po’. Se prendiamo il caso dei paesi dell’Africa Sub-Sahariana, possiamo proporci di realizzare una politica di investimenti molto attenta a che i fondi siano indirizzati allo sviluppo locale e questo può aiutare a ridurre la povertà. Ma è la politica a causare i disastri maggiori, probabilmente più dell’economia e, nel caso di guerre, signori della guerra e tiranni ci vuole un intervento più deciso.

Giustamente temiamo quest’ipotesi. Per esempio abbiamo destituito un tiranno come Gheddafi e il caos è aumentato, sono spuntati ovunque teppisti e zeloti e alla fine migliaia di persone stanno fuggendo. Che cosa fare quindi? Ho una proposta utopica, che so essere politicamente scorretta. Ci sono alcuni paesi del mondo che oggi almeno per un po’ non dovrebbero essere né indipendenti né sovrani. È una cosa di cui il mondo ha bisogno e che le Nazioni Unite potrebbero fare giacché sono state pensate per questo: ci vorrebbe un nuovo sistema di tutele (2) per quei paesi che al momento appaiono incapaci di governarsi da soli. Senz’altro il vecchio sistema dei mandati della Società delle Nazioni non è stato un grande successo, ma almeno non ha prodotto – e per certi versi ha anzi prevenuto – disastri della portata di quelli cui oggi stiamo assistendo sgomenti. Negli ultimi 15 anni, il Kosovo è stato governato attraverso una sorta di tutela della NATO. Ancora una volta non si tratta di un esempio glorioso perché la gente se ne va tuttora, ma almeno si sono fermati gli omicidi. Pertanto forse non è poi così folle pensare ad una tutela da parte delle Nazioni Unite nel caso della Libia e della Siria, attraverso una coalizione di Stati, diversa a seconda di ogni singolo caso, che si prenda la responsabilità di far osservare le leggi e di provvedere alle necessità fondamentali della popolazione, sotto una severa supervisione delle Nazioni Unite. Esito a suggerire quali Stati dovrebbero essere amministrati attraverso un sistema di tutele perché non mi sento di garantire sull’affidabilità di nessun paese. Ma non è che sia necessaria una grande virtù, occorrerebbe solo essere preparati a fermare i massacri, a sbarazzarsi degli assassini ed a cercare di assicurare quella minima stabilità affinché la cittadinanza di questi paesi devastati dalla guerra possa cominciare a dedicarsi alla ricostruzione. Questo lavoro spetta a loro.

È pur vero che un sistema di tutele è molto di più del peacekeeping, giacché è qualcosa che assomiglia piuttosto ad un’occupazione, ecco perché, per quanto tale responsabilità debba essere solo temporanea,essa andrebbe condivisa su larga base. Sarà necessario l’uso della forza, ci saranno alti costi per questo sistema di tutele, anche se costi sicuramente inferiori rispetto a quelli che il disastro siriano sta provocando nelle regioni contigue alla Siria così come in Europa. Nelle descrizioni che le persone di sinistra fanno di solito del periodo imperialista o del Neo-colonialismo, si sottolinea sempre come vi siano delle potenze più ambiziose di assumersi responsabilità di questo genere, perché le responsabilità sono anche opportunità di controllare le risorse, di avvalersi di forza lavoro a basso costo o di ottenere un vantaggio strategico. Ma oggi sarebbe molto difficile costituire un sistema di tutele di questo tipo, anzi gli uomini politici lo vedrebbero come un lavoro ingrato, accettabile solo nel caso remoto in cui i suoi costi fossero equamente suddivisi.

Immaginiamo un vertice (come quello che si terrà in Europa questa settimana per parlare di dividersi i costi della crisi dei rifugiati) in cui si parlasse invece della suddivisione dei costi di un sistema di tutele per la Libia o per la Siria. Molto probabilmente non si presenterebbe nessuno.

Ma dobbiamo immaginarlo comunque, anche perché forse questo tempo sta arrivando.


Michael Walzer è Professore emerito presso la School of Social Science dell’Università di Princeton e Direttore emerito della rivista Dissent.

*Nota editoriale: Giovedì scorso il Presidente Obama ha annunciato che gli USA sono disposti ad accogliere 10 mila profughi siriani entro il 2016, una mossa che alcune associazioni hanno criticato come gesto soltanto simbolico. Circa 3,8 milioni di profughi hanno lasciato la Siria dall’inizio della guerra, nel 2008, e finora gli Stati Uniti ne hanno accolti meno di 1500.

NdT: Walzer parla eloquentemente di “Commonwealth”
NdT: Walzer parla di un “Trusteeship system”, ovverosia di un sistema di amministrazione attraverso tutela internazionale.

Traduzione di Mattia Baglieri

Immagine: Rifugiati siriani aspettano a Vienna, 4 settembre (Josh Zachary, Flickr), dettaglio

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