In un libro pubblicato nel 1990, il demografo francese Jean-Claude Chesnais scriveva che la contiguità geografica tra il continente col più alto tasso di natalità del mondo (l’Africa) e quello col più basso tasso di natalità del mondo (l’Europa) – separati soltanto da quella sottile lingua di mare che è il Mediterraneo – sarebbe stata vista, dagli storici del futuro, come «uno dei fenomeni più importanti, se non il più importante, del passato recente e dei prossimi decenni». E, sotto il paragrafo “Migrazioni inevitabili”, Chesnais precisava: «la persistenza della sottofecondità europea tende ad accreditare l’ipotesi di forti migrazioni».
La demografia si occupa di tendenze di lungo e lunghissimo periodo e, siccome si basa su calcoli generazionali, le sue previsioni sono di gran lunga più affidabili di quelle di qualunque altra disciplina sociale. E dal 1990 sono passati, precisamente, 25 anni: il tempo di una generazione.
La politica, invece, si occupa quasi sempre di tendenze di periodo così corto che non le si potrebbe neppure rubricare come tali: tutt’al più, oscillazioni temporanee provocate dal venticello elettorale. A volte, però, alla miopia parlamentare si sovrappone – e si contrappone – la lungimiranza della strategia, quando la politica tien conto delle tendenze di lungo periodo per formulare un progetto di ampio respiro.
Uno di quei rari momenti di verità – e di contrapposizione – venne, nel 2011, dall’allora commissaria europea agli Affari sociali, Cecilia Malmström: «Quando incontro i ministri del lavoro – affermò – quasi tutti parlano del bisogno di immigrati; ed è vero: ne abbiamo bisogno a centinaia di migliaia, a milioni a lungo termine». A questa consapevolezza, però, si opponeva il calcolo elettorale: «Quando i ministri vanno a parlare davanti alle loro opinioni pubbliche nazionali – proseguiva Malmström – questo messaggio sparisce del tutto», perché «il bisogno di immigrati è difficile da spiegare in un clima di disoccupazione elevata, di rivolte per le strade, di crisi finanziaria e di persone in estrema difficoltà».
Oggi, le centinaia di migliaia stanno arrivando. E questo esodo massiccio è l’occasione per tentare di rimettere in carreggiata il progetto strategico. Alla testa di questo nuovo tentativo c’è la cancelliera tedesca Angela Merkel, indiscussa protagonista politica di questa estate 2015.
Nel dibattito al Bundestag sull’accordo con la Grecia, Merkel aveva descritto l’Unione europea come una “comunità di diritto”, in cui le leggi dei singoli Stati sono subordinate all’interesse comune continentale. Oggi, quello stesso principio pare presiedere la svolta in tema di immigrazione: davanti alle beghe tra Gran Bretagna e Francia, tra Francia e Italia, davanti ai muri e alle stazioni in stato d’assedio in Ungheria, e alle bizze di Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, la cancelliera di ferro ripropone di fatto la “comunità di diritto”, tinta questa volta di compassione e improntata ai principi di apertura e di accoglienza.
Senza aspettare la reazione dei loro governi, i media europei si sono già messi al passo di Berlino. Invece di invocare i “barbari alle porte”, come spesso è accaduto in passato, giornali e televisioni si sono in gran maggioranza dedicati, in questi giorni, al sensazionalismo della bontà, spedendo inviati sui treni della disperazione, in mezzo alle cariche della polizia a donne e bambini urlanti, negli accampamenti di fortuna, sulle battigie ingombre di detriti e cadaveri, senza arretrare neppure di fronte alle immagini più terribili, di solito autocensurate per mille e un’ottima ragione.
Oltre al numero straordinario di persone che stanno affluendo in Europa, e oltre ai loro drammi individuali e collettivi, quel che colpisce della situazione attuale è proprio il cambio di passo di Merkel e dei media. Un cambio di passo che si può attribuire o a un’improvvisa (e collettiva) conversione, oppure a ragioni più profonde, che vale la pena di scrutare.
In fondo, vi è una fortunata coincidenza tra i vuoti che si aprono in Europa a causa del suo “inverno demografico” e il massiccio afflusso di forza lavoro giovane, qualificata, motivata e dinamica dall’Africa e dal vicino oriente. Una coincidenza che l’Europa rischierebbe di lasciarsi sfuggire se, a prevalere, fossero le omertà dei ministri «davanti alle loro opinioni pubbliche nazionali».
Altri, invece, insistono sulla fortunata coincidenza tra i movimenti migratori e il possibile aumento del PIL globale. Per l’economista americano Bryan Caplan, la scomparsa delle frontiere raddoppierebbe, a termine, il prodotto mondiale. Michael Clemens, del Center for Global Development (Washington D.C.) fa questa ipotesi: se metà dei sei miliardi di persone “povere” emigrasse nei paesi “ricchi”, il loro reddito medio annuo passerebbe da 5.000 a 7.500 dollari, “generando” quindi 23 trilioni di dollari, cioè il 38% del PIL globale. Il prodotto mondiale, secondo Clemens, aumenterebbe in una forbice compresa tra il 20 e il 60%, anche se, in questa media del pollo, i salari medi dei paesi “poveri” crescerebbero e quelli dei paesi “ricchi”, inevitabilmente, calerebbero.
Dietro la retorica buonista dell’accoglienza, dunque, ci sono quei «trillion-dollar bills on the sidewalk» di cui parla Clemens. Ma, sul fronte opposto, c’è la popolarità del Front National e della Lega Nord in seno alla classe operaia. Ci sono i campi profughi dati alle fiamme e le marce naziste in Germania, con famiglie e bambini al seguito. C’è il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che costruisce muri e interna gli immigrati, biasimato in Europa ma plebiscitato in patria. Ci sono gli altri tre paesi del gruppo di Visegrád (Polonia, Rep. Ceca e Slovacchia) che recalcitrano ostensibilmente. C’è David Cameron. E ci sono gli altri governi europei reticenti, che non osano mostrarsi allo scoperto, ma che si affidano alla riottosità di Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava.
Le migrazioni sono inevitabili, si sa. E si sa anche che possono a termine rimediare ai guasti delle culle vuote, e perfino essere redditizie. Ad Angela Merkel, che ha messo al passo i media, resta da mettere al passo gli europei recalcitranti. Lo scenario greco si ripete. Ma, questa volta, Angela è diventata “buona”.
Articolo pubblicato il 5 settembre 2015 su La Voce di New York
Manlio Graziano insegna geopolitica alla Sorbona – Paris IV, all’American Graduate School in Paris e alla Skema Business School. È specialista in geopolitica delle religioni. Tra le sue ultime pubblicazioni: Guerra santa e santa alleanza. Religioni e disordine internazionale nel XXI secolo (Il Mulino, 2015)