Se c’è una cosa su cui le ricerche danno indicazioni costanti, è l’erosione del campo giornalistico per effetto dei social media. Il cosiddetto Web 1.0 aveva modificato il giornalismo per integrazione, attraverso la rete parallela dei blog, e per adattamento, con la diffusione dei quotidiani on line. Quello che chiamiamo, più o meno correttamente, Web 2.0 lo ha invece radicalmente trasformato, assorbendo le news all’interno delle piattaforme social, e segnatamente di Facebook. Secondo i dati del Pew Center, ad esempio, il 67% degli americani si informa attraverso il NewsFeed; secondo il Censis, lo fa il 36% degli italiani (si veda il rapporto 2017 sulla comunicazione). Cosa prevedibile ma rilevante, le percentuali salgono – rispettivamente al 78 e al 47% – tra i giovani utenti: consumatori sempre meno attratti dai quotidiani, inclusi quelli digitali, e sempre più disposti ad informarsi attraverso i contenuti postati dal proprio network di conoscenze. Il che, come apparirà chiaro, pone interrogativi nuovi sul futuro di quella che siamo abituati a definire opinione pubblica.
Per farci un’idea del processo di informazione e di come proprio questa opinione pubblica vada formandosi, abbiamo organizzato una serie di interviste con gruppi di nativi digitali di tre diversi paesi del Mediterraneo: Italia, Libano e Tunisia (120 persone in totale, bilanciate in termini di genere; il più giovane ha 19 anni, il meno giovane ne ha 34). Quanto abbiano di simile e di diverso questi paesi è, come sempre, una questione di sguardo, e di variabile scelta. Per quanto riguarda l’ambito dei media digitali, si tratta di paesi diversi per tasso di penetrazione generale di Internet – 76% in Libano, 66% in Italia, e il 56% in Tunisia – ma molto simili per diffusione dei social: rispettivamente, il 58, il 52 e il 56% della popolazione. Ad ogni modo, la scelta è stata dovuta non solo al nostro interesse specifico per il sistema-Mediterraneo, ma anche al fatto che in quest’area si sono manifestati con particolare visibilità tanto la crisi del giornalismo tradizionale – che viceversa è in crescita in zone come l’Australia o gran parte dell’Asia – quanto, soprattutto, gli effetti dell’uso informativo dei social, a partire dalla grande, irrisolta, turbolenza della Primavera Araba, e, per quanto riguarda l’Italia, dall’ascesa del Movimento 5 Stelle. Tra i risultati della nostra ricerca, ci sono tre aspetti che meritano particolare attenzione.
In primo luogo, parlare di uso informativo dei social media, come spesso si fa, è sbagliato: i ragazzi fanno un uso informativo di Facebook, con pochissima attenzione per le altre piattaforme, incluso Twitter. O meglio: tutti i 120 intervistati usano Facebook per raccogliere news, mentre una piccola minoranza segue Twitter, che pure sembra lo spazio ideale per i processi di formazione dell’opinione, e infatti rimane il social preferito dai giornalisti. Malgrado questo, e malgrado molti abbiano perfino parlato della Primavera Araba come di una “Twitter Revolution”, il confronto con gli utenti ha mostrato come lo scambio orizzontale tra pari, per come è percepito su Facebook (opinion sharing), sia di gran lunga preferito alla relazione verticale con un leader d’opinione riconosciuto (opinion giving). Un fenomeno comune ai tre paesi, che pone un problema non da poco: la tendenza a ricevere informazioni da persone della propria cerchia sociale, con cui si ha già una relazione di fiducia, esponendosi sempre meno ad opinioni diverse e finendo per chiudersi all’interno di quelle che si definiscono echo chambers, camere di risonanza in cui ciascuno non aspetta altro che vedere confermate le proprie idee. Come ha detto un’intervistata italiana, “se io sto sul social, sono italiana e ho tutti amici e contatti italiani”, che la pensano come me, “purtroppo io vivrò solo e soltanto lì”, “e quanto doveva essere un ampliamento di Internet, diventa solo una riduzione”. Vero: l’esasperata polarizzazione del dibattito politico, che è un fenomeno ricorrente in molti paesi, ha sicuramente qualcosa a che fare con la nascita di queste echo chambers. Bisogna tuttavia ricordare che questo processo di “clusterizzazione” del Web, che tendiamo a vedere come negativo, ha svolto anche un ruolo decisivo per quelle minoranze che solo attraverso i social hanno potuto costituirsi come gruppo, anche rinunciando ad esporsi a punti di vista diversi. Proprio l’uso di Facebook fatto durante la Arab Spring, ancorché non decisivo come qualcuno ha sostenuto, rimanda esattamente a questo principio di radicalizzazione di un punto di vista – quello anti-governativo, nello specifico – attraverso il rinforzo dello scambio tra simili e l’esclusione degli altri dalla propria cerchia di relazioni.
La seconda indicazione della nostra ricerca è che i nativi digitali sembrano concordare sulla necessità di una formazione permanente, che accompagni le persone nella loro attività di produzione e consumo di news. L’idea che i digital natives siano dotati, in quanto tali, delle competenze culturali necessarie a convivere con l’innovazione è già stata messa in discussione nell’ambito della ricerca sociologica: e a quanto ci risulta, gli stessi soggetti protagonisti della vicenda sembrano avere una posizione molto cauta. Come è emerso dal punto di vista forse più avanzato, nel Web 2.0 “si ricreeranno semplicemente i livelli, e se (…) magari inizialmente tutti avranno possibilità di dire la propria, di essere giornalisti per un giorno, poi si andrà a guardare la qualità”. Insomma, avere uno smartphone non basta a fare di te un giornalista, e la competenza sulle nuove tecnologie non si costruisce semplicemente attraverso l’uso delle nuove tecnologie: un punto di vista familiare per chi ha più di quarant’anni, e che è interessante osservare presso generazioni più giovani.
Una terza indicazione, infine, riguarda le differenze emerse tra i tre contesti nazionali. Differenze inevitabili, perché l’innovazione tecnologica si cala in ogni specifico contesto e ne viene almeno parzialmente modellata, così che le rivendicazioni relative al mondo dei social assumono anche alcune caratteristiche locali. In Italia, ad esempio, emerge tra molti ragazzi il disappunto per le promesse tradite della rivoluzione digitale, e la consapevolezza del fatto che il citizen journalism comporti non solo un ampliamento della partecipazione, ma anche una riduzione del lavoro retribuito a vantaggio di quello volontario e gratuito. In Tunisia, l’attenzione è rivolta principalmente agli equilibri interni del paese, e ad una questione tradizionalmente sentita, che è il rapporto tra la Capitale e le periferie. Storicamente, infatti, Tunisi ha gestito in modo monopolistico il mercato dell’informazione, e la chiusura del Ministero delle Comunicazioni e dell’Agence Tunisienne de Communication Extérieure, dopo il 2011, aveva fatto sperare in un cambiamento radicale anche da questo punto di vista. Quanto i social media e il giornalismo digitale siano in grado di modificare l’assetto tradizionale del sistema, e dare alle province maggiori opportunità, è però una delle tante aspettative della Tunisia post-rivoluzionaria, su cui qualcuno inizia ad avanzare dei dubbi. Il problema, in sostanza, è come evitare che chi gestiva tradizionalmente il potere ricostituisca una simile posizione nel campo del digitale: come ha detto un ragazzo intervistato, “non possiamo essere sicuri che tutto quello che arriva dai social sia una cosa positiva: probabilmente chi ha interessi da difendere non lo fa più soltanto usando i vecchi media, ma anche iniziando a utilizzare i social”. In Libano, infine, il rapporto con i social sembra essere vissuto in un modo diverso e più leggero, con una parola ricorrente in modo ossessivo – “opportunità”, citata da quasi tutti gli intervistati – che sembra suonare più familiare rispetto alle interpretazioni classiche della rivoluzione digitale. In effetti, è emerso dalle interviste svolte a Beirut un punto di vista per certi versi più simile allo stereotipo occidentale del disimpegno e dell’apertura al mondo, in una apparente conferma di quella che lo studioso locale Jad Melki ha definito una dirompente propensione ad un nuovo conformismo consumista.
Infine, le differenze tra i gruppi dei tre paesi rimandano ad una questione di fondo, su cui vale la pena di riflettere. Nei limiti delle inferenze che una ricerca qualitativa rende possibile, è infatti interessante notare come i ragazzi libanesi siano gli unici a manifestare un punto di vista largamente ottimista nei confronti dei media digitali: cosa spiegabile, certamente, con il fatto che il Libano è da tempo un paese tecnologicamente avanzato, ancorché segnato da una fortissima stratificazione sociale. E tuttavia ci sembra singolare come il punto di vista sui social media e sul citizen journalism sia più conciliante in un paese toccato appena marginalmente dalle conseguenze della Primavera Araba, e invece più critico proprio nei due paesi che dei social hanno sperimentato le ripercussioni politiche, sia pure con tutte le proporzioni del caso.
I ragazzi libanesi, che hanno assaggiato più degli altri l’innovazione, hanno un punto di vista ottimistico sul digitale. I ragazzi tunisini e italiani, che ne hanno conosciuto di più le implicazioni civiche e politiche – con la Primavera Araba, o più modestamente con il Movimento 5 Stelle – sembrano essere invece più cauti, se non perfino scettici sul mito della disintermediazione e del citizen journalism. Se sia un caso, o l’indicazione di una tendenza più generale, è cosa che richiederà inevitabilmente ulteriori ricerche.
Credit: Loic Venance / AFP