Da Reset-Dialogues on Civilizations
I migranti vengono spesso considerati come un peso economico per la società. Il discorso politico e mediatico non aiuta: soprattutto coloro che sono costretti a lasciare i propri paesi a causa di guerre o povertà diventano protagonisti incoscienti di una narrazione che li vede come bisognosi a tempo indeterminato dell’aiuto e del supporto –soprattutto economico- dei paesi ospitanti. Crescenti populismi xenofobi in Europa ricorrono spesso a questo tipo di retorica per avvalorare le loro posizioni sulla necessità di chiudere le frontiere al flusso di migranti, malgrado varie ricerche sottolineino il contributo potenzialmente positivo delle comunità migranti all’economia dei paesi ospitanti.
Prendiamo il caso della Turchia, che ha aperto le sue frontiere arrivando ad ospitare il numero di rifugiati siriani più alto al mondo: 2.7 milioni secondo le ultime stime dell’Agenzia ONU per i rifugiati. Secondo dati della Commissione Europea, solo il 10 per cento dei rifugiati siriani vive nei 22 campi profughi turchi, beneficiando direttamente del supporto del governo di Ankara; il restante 90 per cento vive in zone rurali e urbane, tentando con le proprie forze di ricostruirsi una vita e contribuendo all’economia turca. Secondo i dati dell’Unione delle Camere di Commercio Turche, le aziende siriane ad oggi rappresentano più di un quarto delle aziende straniere nel paese. Il numero è aumentato esponenzialmente negli ultimi 5 anni: da 30 nel 2010 a 81 nel 2011, 165 nel 2012, 489 nel 2013, 1257 nel 2014 e 1.599 nel 2015, cui si aggiungono ulteriori 227 attività aperte nel solo mese di gennaio 2016. Negli ultimi quattro anni, circa 4.000 imprese siriane sono state regolarmente registrate in Turchia, numero che potrebbe essere superiore considerando le aziende che operano nel settore informale. Il capitale versato dalle circa 4.000 imprese siriane ammonta a circa 220 milioni di dollari nel 2015, cui si aggiungerebbero circa 10 miliardi di rimesse ed investimenti esteri diretti affluiti in Turchia a partire dal 2011. Non è semplice valutare l’impatto economico di tali cifre, ma le provincie con il più alto numero di residenti siriani già beneficiano del forte effetto delle nuove attività commerciali ed economiche. Un esempio lampante è Istanbul, dove risiedono circa 400 mila siriani; in molti quartieri, le strade si sono riempite di negozi, ristoranti, caffetterie e altre piccole attività che sembrano suggerire un buon livello di inclusione della diaspora siriana nell’economia cittadina.
Little Damascus
Il quartiere di Aksaray, situato nella penisola storica e vicino alle maggiori attrazioni turistiche di Istanbul, è stato ribattezzato “Little Damascus”. Nelle sue strade si respira il profumo del cardamomo, distintivo odore del caffè siriano, si sente parlare l’arabo e i molti ristoranti fanno sopravvivere la tradizione culinaria siriana. Nella via centrale c’è il ristorante Salloura, famoso per i suoi dolci, baklava e altre prelibatezze della cucina di Aleppo. E’ proporio ad Aleppo che la famiglia Salloura ha aperto il primo ristorante 150 anni fa, prima di dover lasciare tutto per l’inizio della guerra civile. Arrivati ad Istanbul, hanno deciso di continuare a mantenere la tradizione di famiglia, portandosi dietro anche buona parte dello staff originale. Oggi Salloura è conosciuta in tutta Istanbul, anche se sono pochi i turchi che si avventurano ad assaggiare le loro prelibatezze. Poche strade più avanti c’è Al Ahdab, un piccolo alimentari che vende solo prodotti importati spesso di contrabbando dalla Siria. Ma non si tratta solo di cibo: agenzie di viaggio e immobiliari, piccoli negozi, Aksaray è il vero centro pulsante della vita della diaspora Siriana ad Istanbul. La piazza di fronte alla moschea era il luogo dove trovare un trafficante per compiere il pericoloso viaggio verso l’Europa, prima che a marzo le frontiere fossero completamente sigillate dall’accordo tra l’UE e la Turchia.
Non solo per business
La presenza della diaspora siriana sta influenzando anche il panorama artistico e culturale della città. A quattro passi da Aksaray, Samir Alkadri, proprietario di una casa editoriale a Damasco, ha aperto la libreria Pages, che ospita libri classici e contemporanei della letteratura araba e qualche libro in Turco e in Inglese. Pages è più di una comune libreria: tutte le settimane ospita concerti gratuiti e iniziative culturali. Sua moglie Gulnar, scrittrice e illustratrice di libri per bambini, organizza workshop con ragazzi e ragazze del quartiere. Entrambi credono che l’arte e la musica siano il miglior veicolo per far incontrare la comunità siriana e quella turca; così, stanno investendo buona parte delle loro energie e dei loro risparmi nel progetto di Pages, malgrado i profitti derivanti da questa attività siano decisamente inferiori ai costi. Muovendoci verso la sponda asiatica, nel quartiere di Kadıköy Omar Berakdar ha aperto Arthere, una piccola galleria d’arte che accoglie artisti siriani ad Istanbul. Lo spazio, aperto nel dicembre 2014, include anche una caffetteria aperta al pubblico: molti studenti si siedono ai tavoli tra le opere esposte per studiare o lavorare e al contempo hanno l’occasione di scambiare due chiacchiere con il proprietario e i vari artisti di passaggio. Così come Pages, Arthere ha l’obiettivo di favorire l’incontro e il dialogo tramite l’arte.
Accesso al mercato del lavoro
Se da una parte le strade di Istanbul sembrano includere la comunità siriana nei processi economico-commerciali della città, i processi burocratici sono lenti e macchinosi. Nel gennaio 2016, il governo turco ha approvato una nuova legge per permettere l’accesso dei rifugiati siriani al mercato del lavoro, misura resasi necessaria a seguito dell’inizio dei colloqui con l’Unione Europea per la gestione dei flussi migratori, iniziati nel novembre 2015. Tuttavia, già in aprile la direzione generale turca per la gestione delle migrazioni lamentava che solo 2 mila persone, a fronte del 2.7 milioni di siriani in Turchia, aveva fatto richiesta di un permesso di lavoro; secondo ulteriori statistiche, ci si aspeta che non più dello 0.1 per cento avrà realmente la possibilità di emergere dal mercato nero. Secondo la legge, un lavoratore siriano ha bisogno di avere un regolare contratto di lavoro per poter richiedere un permesso, ma pochi datori di lavoro hanno interesse a fornire un contratto che comporterebbe maggiori spese a carico dell’azienda. Ad oggi, lo stipendio medio per un lavoratore siriano è di 800 Lire turche al mese (circa 250 euro), inferiore allo stipendio minimo del colleghi turchi, che ammonta a 1600 Lire (circa 500 euro); inoltre, i lavoratori siriani non beneficiano di assistenza né di assicurazioni sanitarie. Questi meccanismi non sono molto lontani dalla realtà dei lavoratori migranti in Europa, a cui troppo spesso non vengono riconosciuti diritti eguali a quelli dei loro colleghi europei. Misure che facilitino l’occupazione regolare delle comunità migranti sono estremamente impopolari e questo aumenta la vulnerabilità delle comunità rifugiate: un problema che la Turchia, con i suoi 2.7 milioni di Siriani, dovrà affrontare presto.