Da Reset-Dialogues on Civilizations
Alla fine del primo discorso pubblico del premier Nikola Gruevski dall’inizio degli scontri a Kumanovo la televisione interrompeva bruscamente la trasmissione, proprio un attimo prima che i giornalisti presenti in sala cominciassero a porgli delle domande. Qualche ora dopo, il telegiornale dell’emittente ‘Kanal 5’ toglieva la parola al presidente dell’assemblea comunale di Kumanovo, Maksim Dimitrievski, che stava per chiedere in diretta nazionale “le dimissioni del primo ministro e del Ministro degli interni, Gordana Jankulovska. Qui nessuno ci capisce alcunché”, aveva lamentato Dimitrievski : “una settimana fa la situazione in città era perfettamente pacifica. E ora a un tratto siamo in guerra”.
Le notizie degli scontri a Kumanovo (centro vicino al confine con Serbia e Kosovo, popolato in prevalenza da slavi ma con una cospicua minoranza albanese) hanno colto l’opinione pubblica macedone completamente di sorpresa. Le prime informazioni sono trapelate nella mattinata di sabato 9 maggio. Si parlava di un’operazione di polizia cominciata all’alba e trasformatasi rapidamente in guerriglia urbana.
Con i reporter tenuti a distanza, gli abitanti costretti a evacuare e informazioni frammentarie le autorità temporeggiavano, in un silenzio assoluto. Una conferenza stampa è stata organizzata soltanto dopo dieci ore, quando ormai il panico si era diffuso tra i residenti. Per avere un bilancio ufficiale dell’operazione si è dovuto attendere quarantotto ore: ventidue morti, di cui otto poliziotti e nessun civile, e 37 feriti.
“Abbiamo sgominato uno dei più pericolosi gruppi terroristici della regione”, questa la versione fornita dal governo di Skopje: “una settantina di persone armate”, “provenienti da uno stato vicino” e con addosso “gli stemmi dell’Uçk”, l’esercito di liberazione nazionale attivo in Kosovo durante la guerra degli anni novanta. Una trentina di loro sono stati arrestati “dopo essersi arresi”.”Il loro scopo”, sempre secondo il governo, “sarebbe stato di condurre degli attacchi contro le istituzioni macedoni, per destabilizzare il Paese”.
Il ‘sistema Gruevski’
Complice la scarsa capacità di gestire mediaticamente la guerriglia che stava infiammando Kumanovo, la versione fornita dalle autorità non è parsa convincente a molte persone. I più hanno anzi sottolineato la tempistica estremamente ambigua dell’operazione, giunta dopo una settimana in cui migliaia di cittadini erano scesi in piazza a Skopje e a Bitola per chiedere le dimissioni del governo. Gruevski, al potere dal 2006, è stato spesso accusato di avere trasformato le istituzioni macedoni in un regime autoritario. Questo sarebbe stato recentemente confermato in decine d’intercettazioni telefoniche rivelate a partire dal febbraio scorso dal principale partito di opposizione, la socialdemocrazia (SDSM) di Zoran Zaev.
Le « bombe », cioè le rivelazioni di Zaev hanno provato come Gruevski e il suo partito (il VMRO-DPMNE, l’Organizzazione rivoluzionaria interna di Macedonia – Partito democratico per l’unità nazionale macedone) abbiano ordinato illegalmente l’intercettazione di più di 20.000 cittadini macedoni “potenzialmente pericolosi per il governo”; demolito un edificio di proprietà di un politico dell’opposizione colpevole di aver espresso il proprio sostegno alla rete televisiva indipendente ‘A1’ (la quale, in seguito, è stata costretta a chiudere); messo sotto controllo la magistratura e fatto pressioni in alcuni processi che vedevano imputati dei membri del VMRO-DPMNE; intascato delle tangenti per truccare gli appalti e – soprattutto – cercato di insabbiare le indagini relative alla morte del giovane Martin Neshkovski, ucciso dalla polizia nel 2011.
Proprio quest’ultima rivelazione ha spinto, la scorsa settimana, migliaia di cittadini a scendere in piazza per chiedere le dimissioni di Gruevski. Martedì 5 maggio, alcune centinaia di persone si erano riunite davanti alla sede del governo, bersagliandolo con delle uova prima di essere disperse a forza dalla polizia. Nei giorni successivi, il numero dei manifestanti non aveva fatto che crescere. Tutto ciò nel silenzio più totale da parte dei media.
Per chi manifesta non ci sono dubbi: è il governo ad avere orchestrato la guerriglia a Kumanovo, cercando di giocare la carta della “Patria in pericolo” e delle divisioni etniche (tra Slavi macedoni e Albanesi) per creare un clima di emergenza nazionale favorevole alla repressione delle proteste e del dissenso.
“Kumanovo è stata messa a ferro e fuoco da mercenari, non da terroristi”, ha dichiarato l’ex generale dell’esercito macedone Ilija Nikolovski a ‘Radio Free Europe’. “Se fossero dei terroristi, avrebbero avuto un movente, una rivendicazione religiosa o politica”, ci spiega Nano Ruzin, analista macedone ed ex ambasciatore alla NATO: “si tratta verosimilmente di mercenari. Probabilmente”, continua Ruzin, “chi li ha pagati pensava d’inscenare uno scontro a bassa intensità, delle scaramucce con la polizia. Invece la situazione deve essere sfuggita loro di mano”.
Ruzin sottolinea che non sarebbe la prima volta che il governo organizza degli scontri per rafforzare il consenso interno. Andreja Bogdanovski, ricercatore macedone del think tank ‘Analytica’, fa anzi notare come proprio negli ultimi mesi la loro frequenza sia aumentata: il 13 aprile scorso qualcuno ha tirato delle granate contro il palazzo del governo; il 21 aprile una quarantina di uomini avevano assaltato la stazione di frontiera di Goshintse; il 3 maggio una bomba è esplosa senza fare danni davanti alla sede del partner albanese della coalizione di governo, il BDI-DUI (partito di unità democratica). Tutti questi attacchi sono rimasti irrisolti e gli autori non identificati.
Un ‘Maidan’ macedone?
“Se si mettono insieme tutti gli elementi”, conclude Ruzin, “è chiaro che Gruevski sta cercando di attuare una ‘strategia della tensione’ pur di salvarsi la pelle. Se dovesse perdere il potere, finirebbe direttamente in prigione”. Pur di non fare quella fine, è lecito aspettarsi che sarà disposto a tutto.
In effetti, è possibile che Gruevski sia stato spinto a un’azione come quella di Kumanovo per tentare di salvarsi in extremis dalla prossima ‘bomba’ di Zaev, che secondo indiscrezioni riguarderebbe l’omicidio di cinque macedoni compiuto nel 2011. Per le autorità, i responsabili sarebbero stati quattro Albanesi condannati tutti all’ergastolo nel 2014. Ma si tratterebbe di una montatura, imbastita dal governo per sfruttare le divisioni ancora presenti tra le due comunità dopo il conflitto del 2001.
Dopo gli accordi di Ohrid, che misero fine ai combattimenti 14 anni fa, le tensioni etniche tra le parti sono in effetti sporadicamente riapparse. Ma esse sono state per lo più il risultato della politica del governo, spesso barricatosi dietro un nazionalismo esasperato (ne è la dimostrazione il complesso monumentale di Skopje 2014, dedicato alla celebrazione della ‘gloriosa storia’ macedone, e costato 500 milioni di euro secondo l’opposizione).
Dal canto loro, sia i residenti di Kumanovo che i manifestanti hanno ripudiato qualsiasi lettura identitaria della crisi in corso. E si sono schierati unitariamente per la fine del potere del VMRO-DPMNE, che è diventato negli anni estremamente pervasivo: a tal punto che oggi, come ricorda il giornalista ed esperto di Balcani francese Jean-Arnault Dérens, “spesso alle imprese viene consigliato di dare lavoro ai membri del partito, per evitare ‘scomodi’ controlli fiscali”.
Per adesso, le proteste continuano. Lo scenario, più che in una nuova guerra, potrebbe evolvere nel prossimo futuro in un ‘Maidan’ macedone. Le ultime notizie dicono che per calmare la piazza Gruevski ha deciso di sacrificare le teste di Gordana Jankulovska (Ministro degli interni), di Sašo Mijalkov (il direttore dei servizi segreti, e cugino del premier) e di Mile Janakieski (il Ministro dei trasporti). Questo, però, potrebbe non essere sufficiente.
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