Da Reset-Dialogues on Civilizations
Diversi sono stati i motivi che hanno riempito la piazza, ma in termini di azioni simboliche c’è stata piena convergenza tra le due proteste, l’una a Sarajevo e l’altra a Sofia, che recentemente hanno animato il sudest europeo.
Entrambe hanno infatti portato al blocco del Parlamento. Il 6 giugno nella capitale bosniaca e il 23 luglio in quella bulgara, i manifestanti hanno assediato i palazzi che ospitano le assemblee legislative, ingabbiandovi dentro, per diverse ore, i deputati.
Sulla scia di Gezi Park
Prima di proseguire, un piccolo appunto. Questi due esercizi di resistenza civica sono stati assai significativi, malgrado una copertura giornalistica non così intensa. Innanzitutto, s’è trattato delle più imponenti contestazioni nei confronti della classe politica registrate nei due paesi negli ultimi anni.
In secondo luogo, entrambe si sono collocate sulla scia delle proteste in Turchia, nel senso che l’esperienza di Gezi Park, con tutto il risalto mediatico che ha avuto, ha fornito ispirazione e infuso il coraggio di marciare e rivendicare. Se questa, nel caso bulgaro, è solo una supposizione, in quello bosniaco assume la forma di una certezza granitica. D’altronde gli stessi manifestanti hanno ammesso che le immagini e le notizie in arrivo da Istanbul hanno costituito un incentivo a fiondarsi in piazza.
Parola d’ordine: bebolucija
Chiarito questo, veniamo al punto di partenza e all’evoluzione delle due rivolte in questione. In Bosnia tutto è cominciato con la solita inazione legislativa, frutto di un’impossibile coesistenza, a sua volta retaggio inestinto dei tempi della guerra, tra i tre principali gruppi nazionali del paese: musulmani, serbi e croati in ordine di peso demografico.
Solo che stavolta gli abituali veti incrociati hanno toccato una materia talmente delicata da far schiumare di rabbia i cittadini, senza distinzioni di etnia. Almeno inizialmente. È che i gruppi parlamentari, sabotandosi a vicenda, non hanno aggiornato una legge sui codici d’identificazione personale, impedendo ai nati dopo la metà di febbraio di possederne uno. La storia di Belmina Ibrisevic, una di questi nuovi nati, gravemente malata e bisognosa di ricevere cure all’estero (la sanità bosniaca non è così avanzata), ma impossibilitata a varcare la frontiera proprio a causa del mancato aggiornamento della norma sui codici personali, è diventata la miccia che ha fatto deflagrare la protesta. I bosniaci sono scesi in piazza in nome dei diritti negati ai neonati e della lotta al malgoverno, in quella che è stata ribattezzata bebolucija (rivoluzione dei bambini).
La cronologia della protesta racconta del blocco al Parlamento e della commovente giornata del 16 giugno, quando a Sarajevo e in altre città del paese i cittadini hanno tenuto veglie funebri in onore della piccola Berina Hamidovic. Anch’ella si era ritrovata nelle condizioni di Belmina Ibrisevic, ma a differenza di quest’ultima, che resta ancora aggrappata alla vita, anche se in condizioni critiche, è stata sopraffatta dalla malattia.
La classe politica è stata “costretta” a fare qualcosa, tamponando il vuoto legislativo con una misura tampone della durate di sei mesi. Da parte sua, il movimento ha emesso un ultimatum, chiedendo una legge vera e propria entro il 30 giugno, pena una nuova Occupy Sarajevo. Non è ancora arrivata la prima, ma neanche la seconda. Alla manifestazione convocata all’indomani dell’ultimatum hanno preso parte poche persone e c’è chi non ha mancato di notare che le variazioni nella simbologia della protesta – dai cartelloni con i biberon ai loghi cari al nazionalismo bosniaco-musulmano – siano il state la prova dello sfarinamento del carattere originario della protesta, sostanzialmente multietnico. C’è però chi sostiene che sia ingeneroso liquidare così la bebolucija, dato che ci sono stati dei risultati, come i permessi di espatrio immediati per le bimbe malate e la legge tampone, che in caso contrario non sarebbero mai arrivati.
Da ultimo, ben più tardi del termine del 30 giugno, s’è aggiunto un vero e proprio disegno di legge, che pur con dei limiti di stampo etnico, in quanto le zone di registrazione ricalcano in sostanza le aree amministrate da musulmani, serbi e croati, ha quanto meno sanato il buco normativo. Peccato che in Parlamento non sia passato. La causa è stata l’opposizione del principale partito musulmano, l’Sda, che ha ritenuto la nuova legge troppo ancorata a schemi etnici.
Ora la palla passa alla Corte costituzionale, che dovrà stabilire se la bocciatura da parte dell’Sda, effettuata – questo il paradosso – ricorrendo al potere di veto assegnato dalla legge sulla base degli interessi vitali di ciascuna delle nazioni della Bosnia, è legittimo o meno. Nel primo caso, bisognerà ricominciare tutto da capo. Nel secondo, la legge entrerà in vigore, come racconta Alfredo Sasso su East Journal.
A Sofia si “balla”
La scintilla che ha portato alla protesta in Bulgaria è stata completamente diversa. A trascinare la gente nelle strade è stata, il 14 giugno, la nomina a capo dei servizi segreti di Delian Peevski, rampollo di una famiglia di magnati dei media che a soli trentadue anni ha già collezionato una quantità di incarichi impressionanti, nessuno assegnato realmente sulla base del solo merito.
La sera stessa del voto parlamentare sulla sua ascesa alla direzione dei servizi, migliaia di persone sono scese in strada, chiamate all’adunata dall’hashtag #DANSwithme (i social network hanno avuto un ruolo importante anche in Bosnia), azzeccato gioco di parole che fa leva sull’acronimo dell’agenzia di stato per la sicurezza: Dans, appunto. Evidente, da subito, il motivo della protesa. Il caso Peevski è stato percepito il sintomo più plateale di un sistema fortemente contaminato da corruzione, intrecci di relazioni tra politica e potentati economici, logiche nepotistiche e consociativismo politico.
A nulla è valso l’annullamento della nomina, deciso nel giro di pochi giorni – con tanto di ammissione di “errore” – dal governo a trazione socialista di Plamen Oresharki, insediatosi dopo le elezioni generali del 14 maggio. La gente non s’è schiodata dalla piazza e la protesta, saldatasi a una situazione di crisi socio-economica, nonché forte dell’onda lunga delle manifestazioni di febbraio contro i rincari energetici, che portarono il primo ministro conservatore Boiko Borisov a dimettersi, è andata avanti. Uno, due, dieci, venti giorni consecutivi. Fino a raggiungere i quaranta. Fino a dare l’assalto al Parlamento e a incassare persino il sostegno della commissaria europea alla giustizia, Viviane Reding. Giunta in visita a Sofia, proprio nel giorno della blocco al Parlamento, ha espresso con un tweet la propria «simpatia per i cittadini che protestano contro la corruzione». Intanto, a Sofia, qualcuno parla di nuove elezioni, altri propongono soluzioni palliative. L’impressione è che si punti a blandire la protesta. Ma lì fuori, in piazza, tanti vogliono ancora “ballare”.
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