Da Reset-Dialogues on Civilizations
“Le sanzioni europee alla Saderat Bank sono illegittime”. La notizia è arrivata a pochi giorni dalle celebrazioni dell’anniversario della Rivoluzione Islamica e in Iran è stata accolto come un bel regalo di compleanno. Non solo nei saloni del potere e della diplomazia. Il pacchetto è arrivato direttamente da Lussemburgo, dalla Corte Generale dell’Unione Europea stabilendo che l’Ue non ha fornito prove sufficienti per dimostrare il coinvolgimento della Bank Saderat nel programma nucleare iraniano e chiedendo quindi la rimozione delle restrizioni. Solo la scorsa settimana, il tribunale si era espresso in modo simile nei confronti della Bank Mellat.
I governi dei Ventisette avranno due mesi per presentare l’appello alla Corte di Giustizia europea, ma resta il fatto che le due sentenze fanno breccia nella strategia e nell’impianto accusatorio dell’Occidente contro Teheran e aprono la strada agli oltre trenta casi simili che sono ancora all’esame della corte e che riguardano, fra l’altro, la Banca Centrale Iraniana e la compagnia petrolifera nazionale, NIOC.
Le sanzioni sono lo strumento più forte utilizzato da Europa e Stati Uniti per tenere a bada le aspirazioni nucleari iraniane e, nello stesso tempo, anche le pressioni israeliane, ma non sono certo una novità degli ultimi anni, anche se negli ultimi anni hanno avuto un rilievo sempre maggiore nel delineare i rapporti con l’Occidente. Sanzioni, intensificate progressivamente a partire dall’apertura del dossier sul nucleare, ma che risalgono per gli Stati Uniti all’assalto degli studenti iraniani all’Ambasciata americana di Teheran nel 1979.
Da allora, infatti, gli Usa hanno attuato unilateralmente una serie di misure restrittive nei confronti della Repubblica Islamica che vanno dal congelamento dei capitali iraniani all’estero (si parla di circa 10 miliardi di dollari), al divieto di importare beni e servizi o di investire in petrolio e gas iraniano, alla richiesta di applicare sanzioni anche alle aziende straniere con investimenti di 20 milioni di dollari all’anno nel settore energetico, fino alle azioni più recenti, attuate dal 2007, che hanno chiuso il mercato finanziario agli iraniani, bloccato tutti i beni della Banca Centrale e di tutte le istituzioni collegate al regime e messo al bando anche settori dell’aeronautica civile e dei trasporti. Oggi per commerciare con l’Iran il Ministero del Tesoro statunitense deve emettere un’autorizzazione ad hoc. L’obiettivo? Isolare economicamente l’Iran e costringerlo a una resa diplomatica.
Questa del resto è la ratio che sta dietro la pratica di misure che, come descritto anche nella Carta della Nazioni Unite (capitolo VII, art 41), non implicano l’uso della forza armata, ma sono adoperate per dare effetto alle decisioni del consiglio stesso.
Nel caso di Teheran ci si riferisce alla prima risoluzione dell’Onu sul nucleare iraniano, datata 31 luglio 2006, che chiedeva alla Repubblica Islamica di sospendere tutte le attività di arricchimento dell’uranio e di riprocessamento entro il 31 agosto dello stesso anno. Diversamente, si sarebbe dato il via alle misure previste dalla Carta.
Così è stato. Da allora sono passati sei anni e quattro risoluzioni sanzionatorie, la 1737, la 1747, la 1803 e la 1929. La prima risoluzione è servita ad attuare una serie di divieti diventati negli anni sempre più stringenti: dalla messa al bando di qualsiasi materiale legato all’attività nucleare fino al congelamento di tutti i beni di singoli o di compagnie collegabili alle attività nucleari iraniane.
Con la risoluzione successiva, del 2007, il panorama si è fatto meno nebuloso e le misure volte a colpire il nucleare di Teheran sono diventate più severe: oltre a riaffermare quanto già stabilito e a estendere il divieto anche alla vendita di materiale utile a costruire missili balistici, sono stati messi nero su bianco i nomi di società, entità e personalità collegate al regime e all’attività nucleare da bandire. Banche come la Sepah e la Bank Sepah International, compagnie legate all’Aeronautica Militare, membri del Ministero della Difesa e dei Guardiani della Rivoluzione, scienziati che hanno lavorato al programma nucleare sono finiti sulla black list e i loro beni congelati.
Nel 2008 il cerchio si è stretto ulteriormente attorno alle società produttrici di beni a duplice uso. La risoluzione 1803, inoltre, ha ampliato l’elenco delle persone non grate, a cui è fatto divieto di transitare nei territori degli Stati membri, e ha chiesto un maggior controllo sull’attività di altre banche iraniane come la Bank Melli, la Bank Saderat e le loro filiali. Interdetto anche il trasporto di materiale da e per l’Iran.
Nel 2010 arriva la stoccata finale dal Palazzo di Vetro: una lista di proscrizione ancora più ampia e la richiesta a tutti gli Stati membri di ulteriori controlli su transazioni finanziarie, trasferimenti di fondi e di forniture, anche attraverso società terze. Ispezioni a navi cargo e aerei da trasposto vengono caldeggiate, nel rispetto del diritto internazionale.
Fin qui si tratta di misure più o meno mirate che hanno avuto l’effetto di soffocare il giro d’affari iraniano in alcuni specifici settori ma che, stando ai rapporti dell’Aiea, non sembra siano state in grado di fiaccare la volontà della Repubblica Islamica di dotarsi di tecnologia nucleare.
Il vero “salto di qualità” si è avuto invece con le sanzioni unilaterali molto più aggressive, decise da una serie di Stati. Paesi come quelli dell’Unione Europea, come la Svizzera, il Giappone, la Corea del Sud, il Canada, l’India, l’Australia e, naturalmente, Israele che, in linea con la politica statunitense, hanno colpito campi primari dell’economia iraniana, mettendo al bando investimenti e operazioni finanziarie. Un esempio, quello del Giappone, il secondo più grande acquirente di greggio iraniano, che lo scorso gennaio ha annunciato che avrebbe attuato passi concreti per ridurre del 10% la sua dipendenza energetica dall’Iran. Stesso discorso a Seul che con Tokyo rappresenta il 24% delle esportazioni petrolifere iraniane.
Il 23 gennaio anche Bruxelles ha dato l’ok all’embargo sul greggio di Teheran, entrato in vigore dal 1° luglio, anche se già da febbraio le autorità iraniane hanno previsto lo stop delle vendite a Francia e Gran Bretagna come ritorsione. A ottobre i Ventisette hanno rincarato la dose bloccando anche le importazioni di gas e allargando il divieto di commercio a tutte le merci, salvo specifica autorizzazione. Alcuni mesi prima, a marzo, le banche iraniane considerate legate al programma nucleare erano state tagliate fuori anche dagli scambi internazionali operati tramite codice swift. Inasprimenti che non considerano, forse, gli effetti collaterali. Isolare un partner economico-commerciale come l’Iran significa, infatti, privarsi di un mercato di fondamentale importanza. Guardando la questione da cortile di casa, l’Italia è il secondo partner europeo per le esportazioni della Repubblica Islamica, dopo la Germania. Il nostro Paese, inoltre, importa circa il 13% del petrolio dall’Iran.
Se i legami con l’Europa si indeboliscono, il quarto produttore al mondo di oro nero (è suo il 10% della produzione globale) va a trovare altrove i propri partner più a Oriente, trovando un mercato favorevole in Turchia, in Cina, in India, nello Sri Lanka. Dipendendo a doppio filo dalle esportazioni iraniane, la Cina, insieme alla Russia che ne raffina il greggio, ha sempre bloccato con il diritto di veto sanzioni comunitarie sulle risorse energetiche del Paese.
Nonostante la retorica del regime voglia che la Repubblica Islamica sia in grado di sopravvivere in regime di embargo ormai da più di 30 anni (dall’inizio delle sanzioni Usa), è indubbio che questi anni di accerchiamento economico si stiano facendo sentire.
Stando all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, le esportazioni di greggio iraniano sono passate da 2,2 milioni di barili al giorno, verso la fine del 2011, agli 860mila del mese di settembre. Prima di queste sanzioni, l’Iran esportava 4 milioni di tonnellate ogni anno, per un valore di 4 miliardi di dollari.
Nella vita di tutti i giorni, questo si è tradotto in un’inflazione galoppante e nella svalutazione del ryal. Non ultima, la decisione resa nota lo scorso 31 ottobre dal vice ministro del Commercio iraniano, Hamid Safdel, di bloccare l’importazione di 2000 beni definiti di lusso per fronteggiare al crollo della moneta, per un giro d’affari di circa 4 miliardi. Beni di lusso di cui farebbero parte marmellate, cosmetici, cellulari, pc, auto: l’obiettivo è l’autosufficienza che in un mercato globalizzato, regolato dall’interdipendenza economica, sembra di difficile realizzazione.
Un altro esempio di come le sanzioni si facciano sentire anche nelle cose più banali è il blocco operato dagli Stati Uniti su una serie di componentistica utile per i velivoli civili che sta impedendo all’Iran di svecchiare la flotta della compagnia di bandiera, l’Iran Air, con la conseguenza che alcuni vettori sono finiti ormai sulla lista nera dell’Ue per ragioni di sicurezza.
In Italia, l’Iran Air fa partenze ormai solo da Milano, per mancanza di aeromobili. Non un problema insormontabile, certo, ma che dà l’idea di un isolamento, non più solo diplomatico. Lo stesso isolamento che segue alla scelta di Eutelsat di interrompere il segnale trasmesso via satellite di alcuni canali iraniani come Press Tv, Al Alam, Quran, Al-Kowthar, IRINN, Sahar 1 e 2, Jam-e-Jam 1 e 2.
Eppure, c’è anche il caso del Paese che più di tutti ha spinto per le sanzioni e che più di altri ne ha applicate, che nell’ultimo anno ha visto crescere del 33% il volume delle sue esportazioni verso l’Iran. Si tratta degli Stati Unti che, stando al Dipartimento al Commercio, avrebbero visto saltare da 150,8 milioni di dollari a 199.5 milioni (nei primi otto mesi del 2012) i propri affari. Il “Grande Satana” contro lo Stato Canaglia, ma con qualche deroga: oltre alla vendita di beni primari come latte e grano, il Ministero del Tesoro Usa ha autorizzato infatti anche il commercio di apparecchiature mediche. Anche se la mancanza di liquidità e i vari blocchi finanziari rendono difficili i pagamenti.
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