Da Reset-Dialogues on Civilizations
Da pochi giorni la Libia ha due parlamenti: il primo filo-islamista a Tripoli, il secondo filo-golpisti a Tobruk. E due premier: il filo-Fratelli musulmani, Omar al-Hassi, e il filo-Haftar, Abdullah al-Thinni. Basterebbe questo a delineare l’estrema frammentazione che attraversa il Paese. Ma ad esacerbare lo scontro è la guerra tra milizie (sarebbero circa 1700 attive in tutto il Paese) che continua sul campo. Da una parte, c’è l’ex generale Khalifa Haftar, autore del golpe del maggio scorso (Operazione Dignità), le sue milizie (primi fra tutti i Zintani), il suo premier, l’ex ministro della Difesa, Abdullah al-Thinni, e il suo parlamento a Tobruk (Camera dei rappresentanti libica), eletta il 25 giugno scorso. Dall’altra, ci sono gli islamisti, asserragliati nel Congresso generale nazionale (Cng) di Tripoli, che sono riusciti dopo mesi a nominare il loro premier, Omar al-Hassi, e controllano i miliziani di Misurata.
I raid sui cieli di Tripoli
E così sono bastati due raid aerei, che hanno causato trenta vittime, la scorsa settimana, per far precipitare il conflitto. Secondo il New York Times, gli attacchi su Tripoli sono stati perpetrati da Egitto ed Emirati Arabi Uniti (Uae). L’Egitto avrebbe fornito le basi per i raid, mentre gli Emirati avrebbero concesso piloti, aerei e il rifornimento in volo. «Non ci sono aerei militari egiziani impegnati in Libia e l’aviazione non ha partecipato ad un’azione militare nel Paese», ha tuonato Sisi per calmare le acque.
Ma i miliziani islamisti, del cartello denominato «Operazione Alba», non si arrendono. Le milizie islamiste hanno conquistato lo scorso sabato l’aeroporto della capitale. Lo scalo è chiuso dal 13 luglio ed è andato completamente distrutto negli scontri che oppongono jihadisti e miliziani pro-Haftar. Gli islamisti hanno sferrato anche un attacco al premier in pectore al-Thinni, devastandone l’ufficio e dando alle fiamme la sua abitazione. I miliziani hanno lanciato poi un appello alle ambasciate occidentali a riaprire i battenti dopo l’evacuazione di massa delle scorse settimane. Questi miliziani si sono detti lontani dalla galassia di organizzazioni radicali, unitesi sotto l’ombrello di Ansar al-Sharia, e attive in Libia. In realtà, i legami tra islamisti moderati e milizie radicali è quanto mai ambiguo. Proprio lunedì gli islamisti radicali, Ansar al-Sharia, hanno chiamato i gruppi presenti in Libia ad unirsi sotto l’ombrello del movimento, inserito da Washington nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Nonostante gli Stati Uniti abbiano condannato i raid dello scorso sabato, dicendosi «sorpresi», a schierarsi tacitamente con l’ex agente Cia Haftar, sono vari think tank statunitensi. Lunedì era arrivato il disco verde all’azione di Haftar anche dal Washington Institute for Near East Policy. In un lungo report sulla figura del militare, si legge che «sebbene la campagna di Haftar ponga rischi alla transizione democratica, permettere al governo di lasciare il Paese a sé stesso sarebbe una minaccia ancor più grande».
Anche il nuovo inviato delle Nazioni unite in Libia, Bernardino Leon, sembra accordare il suo sostegno ad un «processo politico», avallando le elezioni dello scorso giugno. Così fanno pure Italia, Francia, Germania e Regno Unito che hanno condannato l’escalation degli scontri e delle violenze a Tripoli, Bengasi e in tutta la Libia.
Il conflitto in Libia: il ruolo di Egitto e Qatar
In verità, i bombardamenti su Tripoli hanno segnato una nuova pagina dello scontro tra autocrati arabi e movimenti islamisti che tentano di rovesciare i vecchi regimi. Dopo il colpo di stato militare in Egitto che ha mandato a casa il primo presidente eletto della storia al Cairo, il nuovo governo, insieme ad Arabia Saudita ed Emirati, ha lanciato una campagna nella regione (diplomatica, mediatica e militare, armando le milizie controllate) per il ritorno o il consolidamento dei generali.
Dal canto loro, gli Emirati arabi non hanno né confermato né smentito la paternità negli attacchi sui cieli di Tripoli. Il ministro degli Esteri, Anwar Gargash ha considerato le accuse di aver perpetrato gli attacchi un «diversivo». Secondo molti diplomatici occidentali in Medio oriente, gli Emirati sono impegnati ancor più dell’Arabia saudita nella guerra agli islamisti. Durante le rivolte (2011-2012), Qatar ed Emirati hanno entrambi giocato un ruolo centrale in Libia favorendo i loro clienti nel Paese. Già allora Uae sosteneva i miliziani di Zintan, mentre il Qatar si appoggiava a miliziani e leader tribali di Misurata. Era il prodromo dell’attuale scontro tra islamisti e generali, ma ancora di più era l’inizio di una guerra per procura tra Emirati arabi (ora con l’Egitto) e Qatar in Libia.
In questo contesto incandescente, si aggrava anche lo stato di continua minaccia a cui sono sottoposti i profughi sub-sahariani. E così sono loro i primi a subire minacce e ritorsioni, pagando le conseguenze della crisi. Sono soprattutto somali, eritrei e siriani che nell’ultimo mese hanno tentato di lasciare le coste libiche. Particolarmente grave è il bilancio del naufragio di sabato scorso. Secondo la guardia costiera Mohammad Abdellatif, i morti nel disastro potrebbero essere 250. I profughi erano salpati dal porto di Guarakouzi, a est di Tripoli, ed erano diretti verso le coste italiane.
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