Da Reset-Dialogues on Civilizations
Kamal Maaroof sfoglia un album consumato dal tempo. Le mani si muovono svelte, indicano e illustrano, ormai abituate a un rituale tante volte ripetuto. Gli occhi, di un azzurro profondo, si fermano a contemplare l’immagine del figlio, stampata in varie dimensioni sul fascicolo. Jamal Maaroof fissa l’obiettivo con gli occhi marroni, della stessa intensità di quelli del padre. La foto è stata scattata nel 1982, quando Jamal aveva 19 anni, poco tempo prima che scomparisse durante il massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, a Beirut. Il 18 settembre, come ogni anno, Kamal Maaroof sfilerà, assieme agli altri parenti delle vittime, lungo la strada che dalla fossa comune porta all’interno dei campi profughi dove, trentuno anni fa, le milizie libanesi cristiane, con il sostegno dell’esercito israeliano, massacrarono circa tremila persone, in gran parte palestinesi.
Il numero delle vittime è tuttora imprecisato, perché molti corpi non sono mai stati recuperati e tanti altri sono stati seppelliti sommariamente, nel tentativo tardivo di nascondere al mondo l’orrore di una delle stragi più cruente degli ultimi decenni. Così come restano ancora da attribuire le colpe, dato che nessun responsabile è mai stato arrestato, processato o condannato. E dunque Kamal Maaroof è sempre in prima fila alla manifestazione annuale, con la foto del figlio davanti al petto, a chiedere instancabilmente verità e giustizia.
Il 16 settembre del 1982, in un Libano devastato da sette anni di guerra civile, le milizie falangiste entrarono nei campi di Sabra e Shatila, dove vivevano migliaia di profughi palestinesi accanto a cittadini libanesi, all’indomani dell’uccisione del loro leader, Bashir Gemayel, eletto presidente ad agosto. L’esercito israeliano, che da quasi tre mesi teneva sotto assedio Beirut, circondò il campo e per tre interminabili giorni lasciò la popolazione nelle mani delle forze cristiane. La furia falangista si abbatté sui civili inermi che da decenni abitavano il campo, lasciato incustodito dai guerriglieri dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che ad agosto avevano evacuato il Libano nell’ambito di un accordo siglato con il governo e con Israele, sotto la tutela di una forza multinazionale. Il 10 settembre, però, anche questa aveva lasciato il paese, con due settimane di anticipo sul programma. Agli occhi dei militanti falangisti di estrema destra, i profughi palestinesi, che si erano riversati in Libano in seguito alla nascita di Israele nel 1948, costituivano una minaccia per l’equilibrio demografico del paese e dovevano essere cacciati o eliminati.
“Quella notte gli israeliani illuminavano a giorno la zona dal cielo”, ha raccontato Kamal Maaroof, “alle sei del mattino alcuni uomini armati sono arrivati da noi a Sabra. Ci hanno fatto scendere dai palazzi e abbiamo camminato fino a Shatila. Alla mia destra c’erano più di venti persone uccise, alla mia sinistra altre 15. A quel punto hanno separato le donne e i bambini da una parte e i ragazzi e gli uomini dall’altra. Ci hanno messi in fila e hanno cominciato a scegliere le persone a caso. Mio figlio lo hanno preso da dietro di me”. Molte delle persone prelevate vennero condotte nella città sportiva, che divenne un centro di interrogatori e smistamento. Da quel momento di molti di loro si perse ogni traccia.
I primi giornalisti e osservatori internazionali che entrarono nel campo il 18 settembre dovettero farsi strada tra i cumuli di cadaveri che ostruivano le anguste stradine. I miliziani, molti dei quali probabilmente sotto effetto di droghe, non risparmiarono nessuno: anziani, donne, bambini, neonati, persino feti. “La strage di Sabra e Shatila ha lasciato una ferita profonda non solo nella memoria palestinese, ma in quella del mondo arabo e anche a livello globale. Una ferita che non è ancora guarita e non guarirà mai”, ha spiegato Wasim Dahmash, professore di lingua e letteratura araba all’Università di Cagliari ed esponente dell’Associazione Gazzella.
Le immagini del massacro sollevarono un’ondata di indignazione in tutto il mondo e in particolare nell’opinione pubblica israeliana. Il 25 settembre 400mila persone manifestarono nelle strade di Tel Aviv per chiedere le dimissioni dei vertici del governo, innanzitutto del premier Menachem Begin e del ministro della Difesa Ariel Sharon. Tre giorni dopo il consiglio dei ministri israeliano decise di istituire una commissione di inchiesta, presieduta dal presidente della Corte Suprema Yitzhak Kahan, che a oggi resta l’unica indagine ufficiale sulla strage, per accertare i fatti e le responsabilità.
La commissione Kahan concluse il proprio lavoro a febbraio del 1983 e individuò come responsabili diretti della strage Elie Hobeika e Fadi Frem, che guidavano le milizie falangiste, ma stabilì anche la responsabilità indiretta dei vertici del governo israeliano per non aver saputo prevedere quanto sarebbe accaduto nei campi e per non essere intervenuti. Il ministro Sharon fu ritenuto personalmente responsabile e costretto alle dimissioni. A poco a poco, però, il massacro cominciò a essere dimenticato e forse accettato dall’opinione pubblica e dal diritto internazionale e all’inizio del 2001 Sharon divenne primo ministro di Israele.
Nel dicembre del 1982 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva condannato il massacro, definendolo un atto di genocidio, un’iniziativa che però non ebbe alcuna conseguenza. “L’Onu avrebbe dovuto costituire una commissione d’inchiesta, visto che il ritiro dei guerriglieri dell’Olp era avvenuto in base a un accordo internazione, così come avrebbero dovuto farlo i governi dei paesi che avevano garantito quell’accordo, come Italia, Francia e Spagna, perché era loro responsabilità”, ha commentato Dahmash, “Questo non è un particolare secondario”.
I campi di Sabra e Shatila non sono cambiati molto negli ultimi trentuno anni. Le stesse abitazioni fatiscenti si affacciano sui vicoli stretti dove la luce del sole fatica a penetrare attraverso la rete di cavi che penzolano sulle teste dei passanti. “Prima del 1982 tutte le case avevano piante e fiori”, ha ricordato Jamile Shehade, direttrice del centro di Shatila di Beit Atfal Assomoud, l’organizzazione non governativa palestinese che dal 1976 lavora nei campi profughi libanesi, “ma ora non ci sono elettricità né acqua potabile e le piante non possono sopravvivere”.
Come il resto del paese, anche i campi di Sabra e Shatila oggi si trovano a far fronte a una nuova emergenza che rischia di destabilizzare il precario equilibrio libanese: l’arrivo di migliaia di profughi in fuga dal conflitto siriano. Secondo i dati delle Nazioni Unite, sono 718mila i siriani che si sono riversati nel paese vicino, tra cui almeno 92mila palestinesi che per lo più si sono sistemati nei dodici già sovraffollati e malridotti campi profughi libanesi. “A volte in una casa di due stanze vivono venti persone”, ha proseguito Shehade, “per i palestinesi provenienti dalla Siria la vita è molto dura, anche perché lì erano abituati a condizioni migliori”.
L’atteggiamento di Beirut nei confronti dei palestinesi in fuga dalla Siria, inoltre, si è mostrato ambiguo sin dall’inizio della crisi. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi (Unrwa), già a corto di fondi, ha tentato con scarso successo di coordinarsi con il governo e con le organizzazioni umanitarie per gestire l’emergenza e per attenuare le restrizioni sui permessi di ingresso nel paese. La situazione ha continuato a precipitare con l’aumento del flusso dei profughi e il mese scorso Human Rights Watch ha accusato il governo libanese di aver improvvisamente modificato le proprie politiche di accesso e di aver chiuso la frontiera ai palestinesi in fuga. Il trentunesimo anniversario della strage cade dunque in un momento in cui il Libano annaspa per non essere travolto da una nuova crisi interna e regionale. E ancora una volta le strade di Sabra e Shatila sono testimoni di una tragedia che ha radici e risvolti che travalicano i confini del campo profughi alla periferia di Beirut.
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Nell’immagine: Particolare dell’opera “Sabra and Shatila Massacre” di Dia al Azzawi, Tate gallery
Salve,vorrei sapere se le falangi erano cristiane e fino a che punto.Mi spiego.Erano cristiane ortodosse ovvero greco ortodosse o di quale setta?