Uscirà venerdì 11 aprile il nuovo libro di Riccardo Cristiano dal titolo Beirut. Il futuro del mosaico arabo. Il giornalista ripercorre due secoli di storia della capitale libanese fino all’indipendenza del Paese, al deflagrare della guerra civile e all’ingresso sulla scena di Hezbollah, e prospetta una qualche forma d’unione all’interno della regione.
13 aprile 1975: un autobus con a bordo numerosi palestinesi viene colpito ripetutamente mentre attraversa il quartiere cristiano di Ain el Rummaneh, dove il leader del partito falangista Pierre Gemayel sta presenziando all’inaugurazione di una chiesa. 27 passeggeri muoiono sul colpo, 19 rimangono feriti. Per i palestinesi si tratta di un agguato, per i falangisti è la conseguenza di una provocazione: poche ore prima un gruppo di falangisti era stato raggiunto da colpi di proiettile provenienti da un’automobile, con due vittime. È l’inizio ufficiale della guerra civile libanese, che si concluderà soltanto nel 1990.
Chi ha sempre rifiutato la divisione abbastanza artificiosa tra Beirut est, la “Beirut cristiana”, e Beirut ovest, quella “musulmana”, è stato uno dei suoi figli più illustri, Samir Frangieh, che ha sempre conservato il suo domicilio nel versante “musulmano” pur essendo un maronita. Una delegazione della presidenza delle Repubblica Francese anni fa è andata a consegnargli a Beirut la Legion d’Onore per la gravità delle sue condizioni di salute e l’importanza del suo servizio per la pace, purtroppo prossimo agli ultimi rintocchi. Dall’inizio del nuovo millennio, quando l’ho conosciuto, il Libano si è trovato in molte altre guerre. Di quella però Frangieh ha voluto dire che “è stata una guerra tra Stati, ma anche una guerra di liberazione nazionale, una guerra comunitaria, tra cristiani e musulmani, ma anche una guerra civile all’interno delle comunità. È stata la guerra di Israele nel nome del suo progetto di alleanza delle minoranze contro la maggioranza musulmana, ma anche la guerra della Siria nel nome della Grande Siria nelle sue frontiere storiche. I nomi per classificare questa guerra variano da una fase all’altra. L’unica costante è la violenza, alimentata dalla memoria storica caricata di tutti i malesseri del passato. Ecco perché ‘violenza’ è la parola rimossa. Si parla di aggressione, reazione, complotto, rappresaglia, legittima difesa, resistenza, vendetta…non di violenza”.
La violenza è il problema rimosso da molti, anche dai libanesi, che raramente fanno i conti con la loro guerra civile e con la violenza che dopo aver colpito, con secolare discriminazione, gli sciiti, non li ha visti emergerne grazie alla non-violenza predicata all’inizio degli anni ‘70 dal loro prestigioso leader, Musa Sadr, ma con l’ideologia della “resistenza” a Israele, protrattasi anche dopo il sofferto conseguimento del ritiro israeliano dal sud del Libano dieci anni dopo la fine della guerra civile, nel 2000. Ma quel successo non è stato usato per contribuire a far nascere un nuovo Libano, via via è diventato strumento di conquista dello Stato da parte di una milizia creata da una potenza straniera, l’Iran, con un suo preciso progetto teocratico-imperiale. La questione sciita, che Musa Sadr aveva posto al Libano come questione essenziale di un’evidente ingiustizia sociale, era tutt’altra cosa, verissima. Dopo la sua morte, avvolta nel perdurante mistero libico che gli fu fatale, Hezbollah l’ha trasformata in un sistema di milizianizzazione comunitaria, facendo della violenza un totem. Infatti le guerre del terzo millennio, interne ed esterne al Libano, sono state tutte combattute per quanto attiene al Libano da questo attore politico militare. Dunque sono guerre che qui vanno capite nel loro orizzonte, ma ora, dopo i bombardamenti del 2024, dobbiamo allargare lo sguardo, perché non si vede l’oggi se non si vede che le macerie di Beirut ora si uniscono a molte altre, limitrofe.
La distruzione che unisce Libano, Siria e Iraq
Solo allargando lo sguardo possiamo cogliere la vera entità del disastro di una fascia di territorio, e la possibilità di una rinascita. Infatti dall’inizio di questo millennio una catena di eventi bellici ha unito lo spazio che dall’antica Mesopotamia a Beirut: il 2003 ha distrutto l’Iraq, invaso da Bush e i suoi volenterosi seguaci, il 2011 ha distrutto la connessa Siria, invasa dai filo-iraniani e da Putin per salvare gli Assad (impresa poi fallita), il 2024 ha distrutto il Libano, già in via di dissoluzione per la sua crisi economica autoprodotta e senza pari. Dunque le macerie hanno unito questo spazio, che i colonialisti europei avevano frammentato in tre Stati all’inizio del Novecento, lo spazio arabo che dalla Mesopotamia va al Mediterraneo, da Baghdad a Beirut; un mosaico di territori e di comunità diverse e oggi riunite in una sola terra desolata, un’enorme brughiera dove sopravvivere è impresa disperata. Davanti ai cambiamenti del mondo occorre il coraggio di vedere che è tutto diverso e quindi che occorre modificare anche la propria visione di se stessi.
Siria, Libano e Iraq sono vissuti in perenne conflitto dalla loro nascita, un rapporto fratricida: la Siria non ha mai riconosciuto la sovranità libanese, l’Iraq ha sfidato la Siria per la leadership del fronte panarabo, entrambi hanno vessato i curdi. Questo è stato in fin dei conti il prodotto di due ideologie contrapposte, panarabismo e panislamismo, che si sono definite contro l’Europa colonialista ma confermando il loro stile di governo.
Il colonialismo francese, tra i peggiori che la storia abbia conosciuto, già dai suoi albori, nel 1920, quando insediò a Damasco il generale Henri Gouraud, si definì metodologicamente grazie al suo segretario, il diplomatico e visconte Robert de Caix de Saint‑Aymour, che gli spiegò (stando alla ricostruzione storica di Peter Shambrook) come a suo avviso fossero disponibili solo due opzioni nell’area: “Costruire una nazione siriana che non esiste, ammorbidendo le profonde frizioni che la dividono, o coltivare e mantenere questo fenomeno, che richiede il nostro arbitrato, ciò che queste divisioni ci offrono. Devo dirle che la seconda opzione è la sola che mi interessi”, avrebbe specificato il diplomatico.
Il colonialismo così ha spezzato il dialogo euro-arabo dell’Ottocento, che aveva avuto a Beirut il suo epicentro, dove la novità portata dagli europei in quel secolo, l’idea di “nazione”, era stata capita come indipendenza, addio al sistema feudale e sovranità che viene dal basso. Tutto questo però gli europei lo negavano con la scelta coloniale e così gli arabi si sono definiti non con, ma contro l’Europa. I panarabisti, in origine laici ma presto espressione di regimi tutti militari, per formare la nazione araba sovrana, mentre i panislamisti ritenevano che la priorità fosse combattere l’egemonia culturale dei colonialisti europei, cioè la laicità dello stato, creandone di religiosi. I primi non si curavano che avessero connazionali anche non arabi, i secondi che ce ne fossero anche non musulmani. Così proseguire nello stile di governo di Gouraud è stato facile. Lo ha fatto Assad, che ha governato tribalmente alimentando l’urto con la maggioranza sunnita, lo ha fatto Saddam Hussein, che ha governato altrettanto tribalmente favorendo quello con la robusta comunità sciita. E anche i pasdaran iraniani e poi l’Isis hanno tentato l’unificazione dello spazio che va da Baghdad a Beirut puntando su fedeltà tribali.
I loro fallimenti dovrebbero far emergere il metodo opposto; non dividere su linee etniche o confessionali, ma unire. Forse servirebbe uno Schuman, o un Manifesto di Ventotene per questo spazio. Non c’è un termine per identificare questa area; non è tutta la Mezzaluna fertile, non è il Levante. Sono tre Stati che esistono come non esistevano, che sono congiunti, limitrofi, e potrebbero avviare un nuovo cammino. Provengono da ciò che è stato l’Impero Romano d’Oriente, in realtà Basilèia Romàion, Regno dei romani, un plurale che esiste da allora. Ma questa ipotesi ha un fondamento locale, o sarebbe una trasposizione da qui di idee nostre? Esiste una storia araba, locale, che ne parla: è la storia dell’Ottocento di Beirut.
Beirut nell’Ottocento, base di partenza per un altro futuro
Da insignificante fortificazione marina, in pochi decenni Beirut è diventata una metropoli araba, occidentalizzata, mediterranea; questa felicissima formula creata da uno dei più brillanti intellettuali libanesi, Samir Kassir, si basa sul fatto che da sempre Beirut si stende tra il mare e le montagne che la sovrastano, i due poli – il mare e l’entroterra – da tenere in equilibrio tensionale, senza perdere l’orizzonte, il senso, che porta il deserto verso il mare e l’oltre europeo.
L’atto di nascita della grande Beirut portuale reca una data precisa, il 26 aprile 1865, quando tutto cominciò a cambiare. Dal 1860 il limitrofo Monte Libano era teatro di guerre feroci, tribali, soprattutto tra cristiani e drusi, ma non solo. Così cominciò una lenta e inarrestabile fuga di tanti, di tutte le comunità, verso Beirut: in breve tempo sarebbe diventata una metropoli, di diversi profughi. ll vapore, i missionari, il telegrafo, l’illuminazione elettrica stradale, tutto questo contribuì a fare di Beirut una città in crescita esponenziale, fino a quando non si decise di scrivere al sultano una petizione comune, firmata da ottanta notabili appartenenti a tutte le diverse comunità per chiedere che Beirut venisse elevata al rango di capitale di una istituenda provincia costiera, per dare al suo porto maggior rilevanza per tutto l’impero. Firmarono tutti, e dopo diversi anni il sultano diede il suo benestare nel 1889. È il primo passo per definirla “metropoli araba, occidentalizzata, mediterranea”, un passo chiaramente cosmopolita.
Il secondo ebbe luogo il 18 giugno 1893, il giorno della sconfitta del conte Edmond de Perthuis, un imprenditore francese: la sua fu la sconfitta del tentativo del capitalismo coloniale di impossessarsi di un’autoproduzione, il porto di Beirut. Quel porto era la chiave del successo della città, ma dopo aver costruito la strada che collega Beirut e Damasco e ottenuto in modo stravagante la concessione ottomana per costruire anche la ferrovia, mettendo le mani anche sul porto, De Perthuis pensava a un colpo economico finanziario di enorme portata. Ma il suo tentativo di escludere la municipalità e di sostituire i lavori portuali sindacalizzati con maestranze occasionali e quindi meno costose fallì quel 18 giugno quando, nonostante lo sciopero, tentò grazie a una società francese di offrire i servigi portuali all’enorme vascello delle Messageries Maritime, Yang Tse, 125 metri di lunghezza e 12 di larghezza: intendeva far fallire lo sciopero dei camalli beirutini. Tutto questo ovviamente lo tenne per sé. Perciò il comandante Phalix apparve sorpreso vedendo un gran numero di scaricatori di porto salire sul suo vascello, ma per buttare tutto il suo carico in mare gridando “qui non siamo in Francia e tu non sei il padrone”. De Perthuis aveva perso. Dunque nel breve volgere di pochi anni emergevano i due grandi attori che hanno fatto di Beirut una metropoli araba, mediterranea, occidentalizzata: la borghesia e i lavoratori portuali.
L’Ottocento di Beirut può essere letto come un romanzo, il romanzo dell’autoproduzione di uno spazio arabo fatto da soggetti in fuga da guerre confessionali, molti dei quali diventarono borghesi, altri lavoratori organizzati. Ma sarebbe un errore pensare che la sintonia tra Beirut e l’Europa fosse una sintonia di quelle che oggi diremmo “tutte nel mainstream”, cioè che gli intellettuali di Beirut fossero in sintonia con quelli europei solo sulle idee “potenti e ufficiali”, come il nazionalismo. Era così profondo il rapporto culturale con l’Europa delle grandi città portuali, come Alessandria d’Egitto e Beirut, che queste città costiere producevano anche riviste ispirate al pensiero radicale di grandi intellettuali, sovente anarchici, europei. Ne è esempio assai noto il grande successo che ebbe l’improvvisata pièce teatrale su un anarchico spagnolo, Francisco Ferrer, morto nel 1909, che fu scritta in poche ore a Beirut nell’anno della sua morte e subito imparata a memoria dagli interpreti che la misero in scena nel teatro cittadino. Le proteste del clero locale non furono soltanto verbali, portarono tutti i coinvolti a processo, per vilipendio; furono tutti assolti.
Le guerre del Novecento a Beirut
Non sorprenderà più che le guerre che hanno distrutto Beirut dal Novecento a oggi hanno un punto in comune: sia i falangisti cristiani negli anni Settanta, sia i miliziani di Hezbollah dopo il 2000, hanno per opposti motivi combattuto contro il centro di Beirut, la spazio comune che crea una nazione comune a tutte le sue 18 comunità confessionali. Agli albori della guerra civile combatterono tutti, con uguale ferocia, ma i falangisti cristiani presero come arena il centro di Beirut, alcuni sostengono perspicacemente per il suo stile architettonico e urbanistico promiscuo, in parte orientale in parte europeo; ne uscì letteralmente distrutto. Hezbollah nel 2005 ha non casualmente assassinato il premier che ha ricostruito dal nulla il centro di Beirut, Rafiq Hariri, e poco dopo lo mise sotto assedio, nel 2007, impedendo qualsiasi fruizione del centro urbano appena tornato a essere attrattivo per tutti. La motivazione ufficiale fu la sfida al premier che lì risiedeva e che essendo un leale alleato di Hariri li sfidava, ma sapevano bene che quello era uno spazio comune, quindi cosmopolita, non settario: doveva di nuovo sparire? Ecco il 4 agosto 2020 l’incredibile esplosione del porto, che si è portata via interi quartieri limitrofi: quel giorno il Tribunale Internazionale doveva finalmente annunciare la sua sentenza di condanna di operativi di Hezbollah per l’assassinio di Hariri. La guerra del 2024 ha devastato la vita di molti, ma per costruire un futuro diverso occorre ricollegarsi all’Ottocento e porre finalmente fine a questo interminabile Novecento. La prospettiva futura viene dunque dal lontano passato e parla di una qualche forma d’unione, forse confederale, di questo mosaico arabo, al quale Beirut non offre una leadership, ma il senso di marcia: arabo, occidentalizzato, mediterraneo. Un’unione plurale di territori che avrebbero nelle diversità il punto di forza.
Immagine di copertina: la statua in Piazza dei Martiri di Beirut, con fori di proiettile sopra. (Foto di Joseph Eid / AFP)