Da Reset-Dialogues on Civilizations
“O si è terroristi o si è musulmani. Essere entrambi non è possibile.” A dichiararlo è Omar Abboud, ex segretario del centro islamico di Buenos Aires e uno dei due amici che Papa Francesco ha voluto con sé nel viaggio in Terra Santa. L’altro è il rabbino Abraham Skorka. Sono loro due gli uomini che Bergoglio ha abbracciato davanti al Muro del Pianto, con un gesto che ha voluto testimoniare la possibilità di un profondo dialogo religioso. L’immagine che immortala i due tra le braccia di Francesco sullo sfondo delle tanto contese pietre della Città più volte Santa è la copertina di Oltre il Muro, il libro edito da Rizzoli nel quale Antonio Spadaro dialoga con i due amici del papa. Il direttore di La Civiltà Cattolica, gesuita di formazione, parla con un musulmano e un ebreo di un dialogo interreligioso coraggioso, ma necessario per costruire una pace, senza la quale vivere è un tormento. “Abbracciare i conflitti e abbattere i muri” ripete a Resetdoc Abboud, testimone d’eccezione che ricorda i gesti e le parole dello storico viaggio di Bergoglio in Terra Santa che ha ispirato l’invocazione per la pace svoltasi l’8 giugno nei Giardini Vaticani. Padre libanese e madre siriana, Omar è nipote di Ahmed Abboud, fondatore della casa editrice argentina El Nilo che pubblicò la prima traduzione del Corano in spagnolo fatta da un musulmano direttamente dall’arabo. “Quella di mio nonno fu una vera e propria impresa. Durò sette anni, ma ebbe un impatto molto forte nella comunità ispanofona dell’epoca” conclude Abboud, chiedendosi se l’impresa che ha compiuto con Papa Bergoglio e il rabbino Skorka avrà un successo simile.
Il viaggio in Terra Santa, come la preghiera nei Giardini del Vaticano sono stati momenti di dialogo e di speranza. Ciononostante, gli avvenimenti bellicosi più recenti sembrano ridimensionarne la portata. La porta che si era spalancata è ora già socchiusa?
No, è ancora aperta. Quale è il ruolo della religione in questo momento storico? Non era mai accaduto prima che religione e politica fossero chiamati a collaborare per il dialogo interreligioso. Fino ad ora l’agenda e il programma sono sempre stati unicamente politici. Questa è una novità sullo scenario mondiale. Tre settimane dopo il viaggio che ho fatto con Bergoglio in Terra Santa c’è stata l’escalation di violenza che ha portato al massacro a Gaza. Questo è vero, ma ciò non toglie che la porta del dialogo sia aperta perché, in realtà, gli espedienti che sono stati utilizzati in precedenza hanno fallito tutti; siamo reduci da sessant’anni di fallimenti politici. Per questo motivo, l’unica strada è quella del dialogo, malgrado le difficoltà. Il Papa ha un grande carisma, è un suo punto di forza che gli permette di segnare l’orientamento del programma politico attraverso gesti e parole.
Osservando l’avanzata dell’autoproclamatosi “stato islamico” il Papa ha invitato a resistere alla tentazione di definire quello in corso un ‘conflitto di religione’. Alcuni intellettuali italiani non rinunciano a questa categoria e la usano anche per descrivere la guerra israelo-palestinese. Lei che cosa ne pensa?
Questo conflitto può avere la forma e utilizzare il linguaggio della religione, ma ciò non significa che si tratta di una guerra di religione. Il motivo di quanto attraversa il Medio Oriente non è la religione, ma sono la politica, l’economia, le influenze straniere e l’ingiustizia sociale in questi territori. Altrimenti non parleremmo oggi di “stato islamico”, se non ci fosse di mezzo la politica. Non ci si sta uccidendo per motivi di fede o di credo. Se cediamo alla tentazione di credere che questa sia una guerra di religione, non abbiamo altra prospettiva che lo sterminio. Alcuni mesi fa, 130 intellettuali arabi hanno redatto un documento nel quale spiegano perché quello in corso non è un conflitto religioso. La guerra non la fanno le religioni, ma gli uomini. Sono loro che hanno un ruolo preponderante nella strumentalizzazione anche della religione. Ha ragione il Papa quando dice che non possiamo permetterci di pensare che questa sia una guerra di religione perché mentre ogni altro tipo di guerra ha un inizio e una fine, capitolazioni e patteggiamenti, la guerra di religione, che poi è una guerra culturale, non può che portare allo sterminio.
La sua amicizia con Papa Bergoglio è nata in Argentina. Quali erano gli argomenti dei vostri scambi intellettuali? Il dialogo interreligioso prevaleva sulla teologia?
Certamente, i nostri scambi si sono concentrati sul dialogo interreligioso piuttosto che su questioni teologiche. La teologia offre meno spunti. Mina la flessibilità necessaria al confronto e al dialogo religioso. In alcuni nostri incontri abbiamo condiviso alcuni aspetti che l’Islam condivide con il Cristianesimo: la visione di Maria, che per noi è la donna più importante del creato, e il ritorno di Gesù per il giudizio universale.
Il dialogo interreligioso deve poi trasporsi in pratica. Dopo i difficili anni di Papa Ratzinger, Al-Azhar – massima autorità dell’Islam sunnita – ha più volte mostrato interesse a una ripresa del dialogo con il Vaticano. Lei vede spiragli di miglioramenti su questo fronte?
Difficile capirlo con precisione. Al-Azhar è un’istituzione che opera in Egitto e subisce l’influenza della turbolenta evoluzione egiziana. Ci sono stati interventi di leader e anche del principe di Giordania che possono far pensare che un riavvicinamento è davvero possibile. Quello che è più importante adesso è la volontà dell’apertura al dialogo interreligioso. Purtroppo nel 2015 stiamo ancora parlando di questo, mentre dovrebbe ormai essere un processo avviato e rodato. Non ci possiamo stancare di ripeterlo. Le grandi religioni monoteiste non possono perdere oggi l’occasione di questo dialogo. Devo abbracciarsi, come abbiamo fatto noi tre davanti al Muro del Pianto.
Un altro attore che il Vaticano di Bergoglio guarda con crescente interesse è l’Iran, paese con il quale esiste una lunga relazione, rafforzata ora anche da interessi comuni, come la protezione delle comunità cristiane in Medio Oriente. A dimostrarlo è anche la recente traduzione in persiano, da parte di studiosi musulmani sciiti, del Catechismo della Chiesa cattolica. Papa Bergoglio tenderà le mani anche al presidente Hassan Rouhani, magari invitandolo in Vaticano?
Dell’Iran sappiamo che è un paese con una immensa tradizione religiosa, un grande raffinatezza, una nazione con grandi tradizioni culturali. Il Papa, per come io lo conosco, è sempre pronto a tendere la mano. È un uomo disposto al bene, disposto al dialogo e ad andare incontro agli altri. Se le relazioni con l’Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita possono servire ad avvicinare le persone ben venga. Questo non vuole però dire che il Vaticano, come stato, intrattenga poi relazioni con questi paesi. Certo questo Papa, con il suo particolare carisma e con la sua particolare apertura, ha molti punti di forza. Potrà aprire molte più porte. Potrà stringere molte più mani, ma è necessario che trovi reciprocità in coloro ai quali tende la sua.
Dal 28 al 30 novembre il Papa sarà in Turchia. Il suo viaggio ricalcherà alcune tappe di quello fatto da Papa Ratzinger. Quale è il significato di questa missione in un paese ponte verso il Medio Oriente?
Io non sono un esegeta di Sua Santità, ma i principi che professa sono sempre gli stessi. Il suo viaggio si inquadra in una lunga tradizione di visite papali in Turchia e al patriarcato di Costantinopoli. Oltre alle visite istituzionali, l’incontro con il patriarca ortodosso Bartolomeo – il terzo di Bergoglio – sarà molto importante da un punto di vista ecumenico, soprattutto per i cristiani. I viaggi del Papa devono però essere analizzati dopo, quando sono finiti. Papa Francesco è capace di parlare senza aprire bocca, con le azioni, i sorrisi, i gesti. Per questo è difficile prevedere il risultato di una sua missione prima che sia finita.
Giulia Ciatto ha contribuito alla stesura dell’intervista.