Da Reset-Dialogues on Civilizations
Per un pezzo di pollo bollito e una scodella di riso si forma una fila silenziosa e rispettosa fuori dalla moschea sufi di Sheikh Chouli a Erbil. Sono iracheni sfollati dall’avanzata dello Stato Islamico, spazzini bengalesi, kurdi poveri. Sanno che in questo piccolo cortile, a pochi passi dal bazar del capoluogo della regione autonoma kurda, avranno un pasto caldo. I volontari che ogni giorno si presentano alla moschea sufi presentano in tavola 150 kg di riso e 35 di carne, donazioni dal vicino bazar.
Sull’onda di una crisi umanitaria gravissima, in un paese in guerra continua da tre decenni ci si affida alla carità con le organizzazioni internazionali che non riescono più a far fronte alle necessità di oltre 3.3 milioni di sfollati interni e quasi 300mila rifugiati siriani. Tantomeno ci riesce uno Stato disfunzionale come quello iracheno, alle prese con una pericolosa destabilizzazione politica interna e un debito pubblico apparentemente incolmabile.
Ad infilarsi tra le pieghe della crisi sono attori terzi, esterni, che con il denaro incrementano l’influenza politica e economica su un Iraq diviso e mai ricostruito dopo l’invasione Usa del 2003: con istituzioni volutamente epurate di sunniti ed ex baathisti dal governo statunitense, con una corruzione così radicata da mangiarsi i miliardi di dollari previsti per ricostruire infrastrutture ed economia interna, l’Iraq Stato-nazione non esiste.
Dal nord dell’Iraq si passa a sud, alle roccaforti sciite di Karbala e Najaf dove le politiche descritte sopra hanno permesso il radicamento di poteri rivali sciiti, filo e anti-iraniani, che oggi trovano la loro espressione nel conflitto interno tra il potente religioso sciita al-Sadr e le fazioni sciite legate a Teheran. Con il collasso dello Stato iracheno nel post-Saddam, la Repubblica Islamica ha trovato lo spazio necessario ad ampliare il controllo su due simboli della fede sciita, Karbala e Najaf. Simboli sì, ma anche fonti di ricchezza: pellegrinaggi, turismo religioso, il business delle sepolture nel cimitero di Wadi al-Salam a Najaf (il più grande al mondo) attirano investimenti stranieri e dettano di conseguenza l’orientamento politico delle organizzazioni religiose irachene.
E se Teheran era rimasta fuori dal giro di affari delle due città per oltre un secolo ora ci infila tutte e due le mani. La conseguenza è la parziale perdita di autonomia, conquistata dagli marja’iyah iracheni (i giuristi, le più alte cariche religiose dello sciismo) nei confronti dei partiti politici sciiti. A rosicchiarne l’autonomia sono investimenti mirati e l’ingresso di compagnie private iraniane nel business dei pellegrinaggi e del turismo religioso. La cosiddetta industria dell’ospitalità di Karbala e Najaf sta modificando l’economia interna delle due città, che assistono a un calo dei prezzi di hotel, trasporti e ristoranti, alla scomparsa della tassa di ingresso in Iraq per i cittadini iraniani e alla crisi del settore agricolo interno soffocato dai prodotti provenienti dalla Repubblica Islamica.
A ciò si aggiunge il fondamentale ruolo giocato dalle milizie irachene sciite finanziate e guidate dalle Guardie Rivoluzionarie iraniane nelle operazioni militari anti-Isis: con un esercito governativo allo sbando, i pasdaran hanno assunto il controllo delle principali controffensive, a partire da Tikrit per poi proseguire a Ramadi e ora verso Fallujah.
Lo scontro è dietro l’angolo. A paventarlo è Moqtada al-Sadr, religioso sciita che guidò l’Esercito del Mahdi contro l’occupazione Usa e ora a capo delle Brigate della Pace, milizie slegate da Teheran. Con l’abile mossa di vestire i panni del riformatore, del paladino del popolo contro la corruzione dilagante a Baghdad, sfida l’Iran portando in piazza centinaia di migliaia di persone. E ottenendo consistenti vittorie politiche: il rimpasto annunciato dal premier al-Abadi sulle pressioni popolari e sadriste ha sconvolto lo spettro parlamentare iracheno, oggi diviso tra i sostenitori di un governo di tecnici e i “conservatori” che puntano a mantenere intatte – tramite le poltrone ministeriali – le reti clientelari necessarie alla sopravvivenza.
A fare da contraltare alle pressioni iraniane, sia economiche che militari, pensa l’Occidente attraverso le sue braccia finanziarie, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. Nei giorni scorsi il capo dell’Fmi in Iraq, Christian Josz, ha annunciato che il pacchetto di aiuti a favore di Baghdad (15 miliardi di dollari nei prossimi tre anni, di cui un terzo direttamente dal Fondo e due terzi da paesi donatori) sarà approvato al massimo entro giugno. All’Iraq l’Occidente chiede riforme fiscali che mettano un freno alla crisi economica e al concreto rischio di bancarotta: l’attuale deficit di bilancio ammonta a 25 miliardi di dollari ma potrebbe salire a 59 entro ottobre. La ricetta? Nuove tasse e imposte in un momento in cui il crollo del prezzo del petrolio danneggia non poco un paese che spende 4 miliardi di dollari solo per gli stipendi dei dipendenti pubblici, che copre il 90% delle spese statali con i proventi del greggio e che ha assistito in pochi anni alla chiusura di 17mila piccole e medie imprese a causa della mancata ricostruzione delle reti idriche ed elettriche.
Soldi anche dalla Banca Mondiale che ha di recente inviato a Baghdad 350 milioni di dollari per la ricostruzione delle infrastrutture nelle zone liberate dall’Isis: «La Banca Mondiale sarà dalla vostra parte, dalla parte di ogni cittadino iracheno, in ogni passo di questo lungo viaggio verso giustizia, sviluppo, pace e prosperità», ha detto alla fine di marzo durante una visita nel paese Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale.
In cambio i donatori internazionali avranno indietro un paese dipendente dagli aiuti esterni e facilmente plasmabile, soprattutto in vista dell’anelata divisione federale immaginata da un decennio dagli Stati Uniti. Una soluzione del tutto contraria alle ambizioni dell’altro potente finanziatore, l’Iran, che vuole un Iraq unito parte integrante dell’asse sciita Teheran-Damasco-Hezbollah.
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