Da Reset-Dialogues on Civilizations
Dopo le lunghe vicende giudiziarie che hanno coinvolto il premio Nobel Orhan Pamuk e la scrittrice Elif Şafak, dalla Turchia giunge ancora una volta la notizia di un provvedimento giudiziario a carico di una delle personalità più illustri del paese: il pianista Fazil Say.
Musicista virtuoso, ha suonato con alcune delle più importanti orchestre filarmoniche del mondo, tra cui quella di Tokyo, New York e Berlino. A suo carico pendeva un procedimento iniziato lo scorso Ottobre, quando un pm aveva accolto la denuncia da parte di alcuni cittadini che si sono detti offesi da dei tweet del musicista. Nei primi si legge una poesia in cui il poeta persiano Omer Khayyam descrive il paradiso islamico con “donne bellissime e fiumi dissetanti”, che il pianista accosta rispettivamente alle fanciulle di un bordello e al vino di una “meyhane”(osteria turca). In un altro tweet citato dall’accusa il musicista si chiede se la rapidità con cui un imam aveva liquidato i fedeli (22 secondi nel caso in questione), fosse dipesa da una bottiglia di raki (distillato turco) o da una donna.
La vicenda giudiziaria si è conclusa lo scorso lunedì, con una condanna a 10 mesi di reclusione, poi sospesa per 5 anni, periodo nel quale il musicista,ateo dichiarato, deve evitare ulteriori ironie su temi religiosi. Come a dire: spaventarne uno per avvisarne mille, forse più.
Potrebbe sembrare che la storia si ripeta, ma al di là della condanna, esito diverso rispetto alle assoluzioni di Orhan Pamuk e Elif Şafak, l’accusa che ha portato alla condanna di Fazil Say si basa sulla violazione di un articolo, il 216, che al terzo comma punisce chiunque “offenda apertamente il sentimento religioso di una parte della popolazione”. Una violazione diversa da quella su cui reggeva l’accusa rivolte ai due scrittori, citati in tribunale per aver offeso “l’identità turca”,in base all’articolo 301 del Codice Penale. Tale articolo prevede la reclusione da sei mesi a due anni, con “l’aumento di un terzo della pena nel caso l’offesa provenga da un cittadino turco residente all’estero” e aggiungendo che “non costituiscono reato le manifestazioni dirette alla critica”. Il fatto che i due scrittori fossero finiti sul banco degli imputati, il primo per delle dichiarazioni sul genocidio armeno e la seconda per aver creato un personaggio letterario poco gradito alla coscienza nazionalista, fornisce casi esemplari di come le accuse basate sull’articolo 301 abbiano da sempre visto avvocati e giudici darsi battaglia sul confine tra la“manifestazione diretta alla critica” e “offesa all’identità turca”.
I due scrittori sapevano di percorrere un campo minato,conoscevano i rischi che correvano, gli stessi rischi che si è assunto chiunque si sia avventurato in una critica dell’ideologia kemalista o in un qualsiasi revisionismo riguardante la vita e la figura di Mustafa Kemal Atatürk, a difesa del quale si erge un apposito articolo del codice penale. L’articolo 5816 al primo comma stabilisce che chiunque “insulti pubblicamente il ricordo” di Atatürk “con termini ingiuriosi e volgari venga punito con una pena da 1 a 3 anni di reclusione”, pena è estesa a chi “imbratta, rovina, rompe o danneggia statue, busti e monumenti”.
Questo articolo ha reso possibili processi a numerosi critici, soprattutto tra accademici e intellettuali. Ultima una giovane giornalista del quotidiano Akșam e della Cnn-Turk, Nagihan Alçı, liberale e laica, incriminata perché colpevole di aver definito Atatürk un dittatore. L’incriminazione è avvenuta dopo una pesante campagna posta in essere contro la Alçɪ da parte di media e alcuni politici, ma al di là della varietà e relativa bontà delle opinioni su Atatürk il punto è un altro: in Turchia questo è sempre stato un argomento tabù, e l’applicazione zelante di tale legge ha portato negli anni alla configurazione di una sorta di “blasfemia laica”, strumento attraverso il quale lo stato ha perseguito la tutela dell’ideologia kemalista, laica e secolare, di fatto imposta alla Repubblica sin dalla sua fondazione, senza che nessuno potesse permettersi di criticarla.
Si nota come Il significato del termine “offesa-blasfemia” abbia assunto connotati che hanno caratterizzato l’evoluzione della stessa Repubblica turca, assumendo contenuti peculiari con la stessa gradualità con la quale il paese è diventato un unicum all’interno dell’intero panorama islamico. Ad essere perseguito era chi offendeva il Padre della Nazione, “l’identità turca, la grande Assemblea Nazionale,il Governo della Repubblica, le istituzioni militari e giudiziarie”. L’oggetto della lesione risultavano essere i punti di riferimento dei governi in carica, le fondamenta di un’identità nazionale cui tutti i cittadini devono accettare di uniformarsi e riconoscersi. Con ripercussioni pesanti sulla libertà di pensiero ed espressione, come testimoniato dai casi citati.
La condanna di Fazil Say, pur presentando connotati diversi, va collocata nello stesso contesto. Il reato contestato,appare sproporzionato rispetto a quei pochi tweet attraverso i qual l’offesa si sarebbe concretizzata. La notizia della condanna è stata accolta con incredulità da larga parte dell’opinione pubblica di un paese in cui la laicità ha sempre costituito motivo di orgoglio. A finire nel mirino sono state alcuni provvedimenti presi dal partito di Erdoğan negli ultimi anni, in particolare la parificazione tra scuole laiche e scuole religiose (imam hatip) che ha permesso ai diplomati di queste ultime di accedere a posizioni di rilievo attraverso concorsi e nomine. Con l’ascesa al potere di Erdoğan la religione è diventata, per la prima volta, un fattore che condiziona alcune scelte della politica turca. Con la condanna di Say la religione entra a far parte di quel sistema di valori che in Turchia non si possono né criticare né discutere. Con gravi ripercussioni, ancora una volta, sulla libertà di espressione e di pensiero.
Ecco una vignetta apparsa sul giornale satirico Leman. Nel testo si legge “Dieci mesi a Fazil Say” e “Ha ritwittato e la vita gli è scivolata via”.
Vai a www.resetdoc.org