Lo sgombero dei manifestanti a sostegno del deposto presidente islamista Mohammed Morsi finisce in un barbaro bagno di sangue. I militari realizzano il piano annunciato da tempo e il 14 agosto sgomberano i sit-in dove gli islamisti sono accampati dal 28 giugno. Nahda, il più piccolo dei due accampamenti, viene ripulito in fretta. Più difficile invece ripristinare l’ordine a Rabaa el-Adawyia, l’altro sit-in che in queste sei settimane è diventato una piccola città stato con fortificazioni, polizia interna e funzionari di controllo alla frontiera. Una città tentacolare che è cresciuta giorno dopo giorno, kilometro dopo kilometro, fino ad arrivare a occupare l’autostrada che collega il distretto di Madinat al Nasr al Cairo e all’aeroporto.
Alla violenta battaglia sul campo si somma quella dei numeri. Per ogni persona dichiarata morta dal governo, gli islamisti ne contano dieci. Le fonti più affidabili parlano di 500 morti e circa 4mila feriti. Cifre destinate a crescere, considerando che la Fratellanza Musulmana annuncia nuove marce contro i militari.
Davvero inevitabile un bagno di sangue annunciato da tempo? La risposta non la si trova nelle immagini più recenti. Bisogna sfogliare gli album degli eventi precedenti. La strage del 14 agosto è l’apice di una polarizzazione che è cresciuta dal giorno in cui gli islamisti sono saliti al potere. Le strade della Fratellanza Musulmana e dei suoi oppositori si sono divaricate soprattutto dopo la deposizione del presidente islamista democraticamente eletto, ma illiberale. Il Morsi oggi vittima ed eroe degli islamisti è lo stesso uomo che ha fatto concludere in una notte la stesura di una costituzione redatta esclusivamente dai suoi sostenitori e chiamato in causa decine di giornalisti accusandoli di averlo offeso.
Dopo la deposizione di Morsi, i militari invitano gli islamisti ad aderire al loro nuovo progetto, ma questi sono ferrei nel chiedere il ritorno del loro presidente. Quanti considerano l’intervento militare un colpo di stato, legittimano quindi anche la resistenza armata. Chi ritiene l’azione dell’esercito legittima, giudica anche lo smantellamento con la forza dei sit-in islamisti un’operazione lecita e necessaria.
Questo quadro si rispecchia nella copertura mediatica dell’ennesima giornata di crisi. Le televisioni di stato e le reti private, ora in gran parte ostile ai Fratelli Musulmani, dipingono la retata dei militari come un’operazione chirurgica contro un movimento prevalentemente violento e armato fino ai denti. Le televisioni islamiste, in primis in canale in diretta dall’Egitto di Al-Jazeera, parlano di una strage contro manifestanti inermi. Nessun accenno alle armi che da settimane hanno dentro le tende alcuni islamisti. Nessun racconto delle rappresaglie contro più di venti chiese e scuole copte e quelle contro i palazzi del governo e alcune centrali di polizia.
“I leader della Fratellanza sacrificano i corpi dei loro seguaci per il bene del potere. Le forze di sicurezza non si fermano ad attaccare con violenza. Il risultato è questo bagno di sangue” si legge nella dichiarazione rilasciata dal Movimento civile, giovanile e rivoluzionario del 6 Aprile che pur avendo appoggiato le manifestazioni di strada che hanno chiesto l’uscita di scena di Morsi si è opposto all’intervento militare.
Difficile capire chi è il vincitore di questo bagno di sangue. Chiaro però che a perdere è la democrazia. A luglio si è rotto il fronte che per due anni ha tenuto la Fratellanza insieme ai quei militari frettolosi di imporre una tabella di marcia che non ha creato un terreno fertile all’unità nazionale. I cocci sono tutti degli egiziani che cercano ora di ricomporre un puzzle dove è sempre più complesso trovare il pezzo da incastrare con l’altro.
In un contesto di democrazia non consolidata, il risultato è stata la progressiva polarizzazione tra le parti che ha messo al centro il concetto di esclusione. Negli ultimi mesi, il dibattito politico interno è stato dominato da dinamiche di esclusione tipiche del passato e sono state sempre più isolate le voci di quanti hanno cercato di includere l’altro nelle dinamiche politiche.
L’Islam politico è una componente rilevante dello spettro politico egiziano e se la Fratellanza si separa definitivamente dal percorso democratico, le posizioni più estremiste potrebbero prendere il posto di quelle più moderate. Tanto i sondaggi condotti nelle ultime settimane che la mappa geografica delle recenti manifestazioni mostrano che i Fratelli Musulmani sono contestati anche nelle loro roccaforti. Le immagini di violenza contro i loro affiliati potrebbero però fargli guadagnare qualche voto. Difficilmente, qualora decidessero di partecipare alle prossime elezioni, riusciranno a recuperare tutti i consensi persi da quando Mursi è salito al potere.
I liberali che hanno sostenuto l’ultimo intervento dell’esercito iniziano a chiedersi se non si sono prestati a un progetto militare che spiani la strada alla restaurazione del vecchio regime. Mohammed El-Baradei, premio Nobel per la pace, da luglio vice premier del nuovo governo, è il primo a fare un passo indietro. L’uomo con il compito di spiegare al mondo intero che quello in Egitto non è stato un golpe militare si dimette.
I suoi tentativi di negoziazione pacifica non sono stati seguiti da gesti significativi da parte delle attuali autorità egiziane che continuano a tenere in carcere il presidente deposto.
Alla vigilia della loro ultima operazione, i militari sostituiscono 25 governatori. Ora 14 sono ufficiali dell’esercito e 4 poliziotti. A sgombero terminato, impongono lo stato di emergenza. Ufficialmente annunciano che durerà solo un mese, ma è un chiaro segno che il governo non ha alcuna illusione di una soluzione rapida e pacifica.
L’Egitto è davanti all’ennesimo banco di prova. L’economia continua a collassare, la comunità internazionale si mostra incapace di influenzare gli avvenimenti in corso e turismo e copti tremano. Solo quando il processo di transizione diventerà realmente inclusivo si potrà discutere di democrazia, giustizia sociale e ripresa. Per ora però, l’appuntamento sembra rimandato.