Da Reset-Dialogues on Civilizations
Ancora una settimana e poi forse gli Stati Uniti attaccheranno la Siria. La decisione sembra presa, bisogna solo stabilire quando. E bisogna a questo punto incassare il sì del Congresso, dopo il 9 settembre e dopo che i Repubblicani hanno fatto intravvedere che “sì”, loro ci starebbero. Nel frattempo, si continua a parlare di guerra imminente, dimenticando forse che una guerra in Siria si combatte ormai da più di due anni e che ha prodotto, secondo le Nazioni Unite, più di 100mila morti. Ma quella siriana non è solo una guerra interna di cui, come spesso capita, ci si accorge in ritardo, ma una guerra regionale allargata al di là del Mediterraneo che spaventa e preoccupa, ragione per cui la tacca sull’asticella della cosiddetta linea rossa è stata più volte tirata in su.
La chiave di lettura più immediata e semplificatoria vede contrapposta la minoranza alauita rappresentata da Bashar Al Assad alla maggioranza sunnita che, dopo mesi di manifestazioni pacifiche represse brutalmente, si è riunita nell’Esercito siriano libero. Due blocchi a cui corrispondono altrettanti gruppi di attori: i Paesi del Golfo, la Turchia, l’Iran, Israele e alle spalle, con un occhio puntato su tutto, Usa e Russia, ma a differenza della Guerra Fredda, ora le cose appaiono un po’ più complesse.
Prima di tutto c’è un’alleanza strategica rappresentata da Iran, Hezbollah libanesi che controllano il Sud del Libano e regime siriano; e su questo stesso lato della plancia c’è Mosca che oltre alle armi ha fornito un capello di protezione indispensabile all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu bloccando, grazie anche alla Cina, ogni risoluzione punitiva contro il regime di Assad. Navi russe sono schierate a Tartus, il porto siriano che è l’unico accesso al Mediterraneo di Mosca, sin dal 1971 sulla base di un accordo siglato in piena Guerra Fredda e implementato nel 2009, facendo guadagnare alla flotta navale russa una posizione stabile in un punto nevralgico.
Un rapporto, quello fra Damasco e Mosca, consolidato anche da interscambi economici considerevoli e di lunga durata nel settore energetico, delle infrastrutture e del turismo, che solo nel 2010 hanno fatto registrare fatturati da 1 miliardo di dollari e nel 2009 investimenti da 20 miliardi. Ci sono, inoltre, i lavori per la costruzione del gasdotto che dovrebbe passare anche per la Siria e che ha spinto la compagnia Stroitransgaz a portare da tempo il suo personale in loco.
Fin qui è tutto piuttosto chiaro e, soprattutto, non inedito se non fosse per le ultime dichiarazioni di Vladimir Putin che, alla viglia del G20 di San Pietroburgo, ha scompaginato le carte in tavola con un’apertura a un attacco “limitato” in Siria se si dovesse trovare l’evidenza dell’uso di armi chimiche.
Ma quando si parla di Iran e Hezbollah una delle prime cose che viene in mente è anche Israele: Israele che ha una guerra per il momento fatta solo di minacce e schermaglie verbali con la Repubblica Islamica, ma che con il Libano la guerra l’ha fatta davvero: l’ultima è nel 2006 (dopo essere intervenuto pesantemente nella guerra civile libanese), e il risultato è una forza d’interposizione che sta lì, a sud del fiume Litani, dove ci sono, fra gli altri, 1100 militari italiani della missione Unifil e una blue line composta da una serie di bidoni blu (quello stesso blu della bandiera delle Nazioni Unite) che ricordano alle parti in causa il limite da non superare. Ma Israele la guerra l’ha fatta anche contro la Siria e, a dire il vero, dal 1967 a oggi non è stata mai siglato un accordo di pace; questo significa che oggi i due Paesi sono ufficialmente in guerra con un contenzioso territoriale, quello sulle Alture del Golan occupate durante la guerra dei Sei Giorni dallo Stato ebraico, ancora aperto. E nel frattempo, un test dell’Idf con la collaborazione del Pentagono del sistema di intercettazione antimissile Arrow, avvenuto a sorpresa nel Mediterraneo, ha innalzato nuovamente la tensione nella zona.
Dall’altra parte, la situazione non è meno intricata. Anzi. Non è una novità che l’Iran stia cercando di rimpiazzare la supremazia dei Paesi del Golfo, Arabia Saudita in prima linea, nell’area puntando sull’alleanza con gli sciiti di Iraq, Bahrein e Yemen. Una prospettiva che spaventa non poco il piccolo Stato ebraico e che lo rende ora, come non mai, straordinariamente vicino agli interessi sauditi, sebbene essi siano intrecciati a doppio filo con il fondamentalismo wahabita. La battaglia contro Bashar Al Assad rappresenta per loro una battaglia, indiretta, contro l’Iran e contro le sue ambizioni politiche e nucleari. Un attacco a Damasco sarebbe infatti anche un monito rivolto a Teheran e la prova che l’establishment israeliano cerca dell’interventismo statunitense, se mai ce ne fosse bisogno. Ma a Israele non piacciono neanche i ribelli siriani, sia perché molti di loro sono vicini ai Fratelli Musulmani (lo stesso movimento da cui deriva Hamas), sia perché ormai al loro interno si contano gruppi di islamisti qaedisti.
Il problema della variegata composizione dell’opposizione ad Assad è ciò che ha fatto tentennare l’Amministrazione Usa finora. Meglio permettere che si rafforzi l’asse Assad-Khamenei-Nasrallah o lasciare spazio libero alla ampia galassia sunnita? E mentre il dilemma prendeva corpo nelle stanze della Casa Bianca, sul terreno hanno guadagnato spazio realmente tutti quei gruppi che poco hanno a che fare con gli ideali libertari delle prime manifestazioni a Daraa, Homs, Idlib; gruppi composti da combattenti islamici che hanno già operato in Iraq, Somalia, Afghanistan, Cecenia e che inizialmente sono sembrati l’unico ausilio in grado di contrastare le truppe governative.
Questa è la stessa ragione, del resto, che contrappone di fatto Turchia e Paesi del Golfo, la prima sostenitrice dei ribelli della prima ora, gli altri legati da sempre dei movimenti più estremi.
La tensione fra Ankara e Damasco è però storia lunga, precedente al 2011. Prima la disputa sulla provincia di Hatay, annessa dalla Turchia su mandato francese e contesa dalla Siria, poi il sostegno siriano ai curdi del PKK e agli armeni dell’ASALA, due profonde spine nel fianco turco. E ora l’aperto sostegno all’opposizione di Assad ha creato non poco problemi interni a Erdogan, sia politici, sia di sicurezza. Si ricordano, fra gli altri, l’attacco nell’ottobre 2012 della contraerea siriana proprio nella provincia di Hatay e lo scorso maggio l’esplosione di due autobombe nella stessa zona. Del resto la Turchia, assieme al Libano e alla Giordania, sta pagando il prezzo di questi due anni di guerra in termini di ospitalità offerta ai profughi.
Due milioni i rifugiati che fino a oggi hanno abbandonato il Paese, il 97% dei quali, spiega l’UNHCR, si è ospitato nei Paesi confinanti: “110mila in Egitto, 168mila in Iraq, 515mila in Giordania, 716mila in Libano e 460mila in Turchia”. Dati che tengono conto solo delle situazioni regolarmente registrate. Altri 4 milioni sono gli sfollati all’interno della Siria stessa, “per un totale di più di 6 milioni di persone in fuga dalle loro case”. Un milione dei quali sono bambini. Per farsi un’idea: è come se una città come Rio de Janeiro scomparisse progressivamente nel nulla.
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