Dopo 1.651 giorni dietro le sbarre, Osman Kavala, massimo rappresentante della società civile turca, è stato condannato all’ergastolo aggravato, una sorta di “41 bis”, per aver finanziato e sostenuto il movimento di Gezi Park e per aver avuto un ruolo nell’ideazione del tentato colpo di stato del 15 luglio 2016, mentre è stato assolto dall’accusa di spionaggio politico e militare.
Kavala, filantropo e attivista per i diritti umani, riconosciuto a livello internazionale come alfiere della cultura e della democrazia, è stato vittima di un processo kafkiano che passerà alla storia. Con lui è stato condannato un intero movimento per i diritti civili.
Il verdetto che ha espresso lunedì 25 aprile il tribunale di Çağlayan a Istanbul contro otto intellettuali ed esponenti della società civile turca è stato definito da diverse organizzazioni non governative internazionali un colpo oltraggioso ai diritti umani.
Urla di dolore e pianti hanno lacerato la solennità dell’aula della 13ª Corte penale alla pronuncia della sentenza di condanna all’ergastolo aggravato per il filantropo e a 18 anni per gli altri 7 imputati, tutti attivisti per i diritti umani, tra questi Can Atalay, Mücella Yapıcı, Çiğdem Mater, Hakan Altınay, MineÖzerden, Tayfun Kahraman e Yiğit Ali Ekmekçi. Anche a questi ultimi è stata inflitta una pesante condanna per aver “organizzato e finanziato” le proteste antigovernative di Gezi della primavera del 2013, che videro la partecipazione spontanea di milioni di persone in tutto il paese. Per Henri Barkey, professore della Lehigh University degli Stati Uniti, e altri sette imputati vi sarà un processo a parte.
Espressioni di sdegno sono giunte da tutte le organizzazioni della società civile, da diversi esponenti politici europei e da tutte le forze di opposizione. Subito dopo la sentenza, in diverse città del paese la piattaforma “Taksim Dayanışması” (Solidarietà per Taksim), la rete militante del movimento Gezi, ha protestato. A Istanbul gli attivisti hanno dato vita a una manifestazione di protesta proprio nei pressi dell’iconica piazza Taksim, ma subito è intervenuta la polizia e ha arrestato 51 persone.
Ma perché questo accanimento contro una personalità così influente e stimata nel mondo accademico e nella società civile d’Europa?
Storia di una persecuzione
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan aveva direttamente accusato Osman Kavala di essere dietro una trama eversiva a sostegno di quelli che chiama i “sovversivi di Gezi” intenzionati a rovesciare il suo governo. Non aveva approvato la prima sentenza di assoluzione della Corte di İstanbul del 18 febbraio 2020, e per questo ad essa non seguì la scarcerazione di Kavala.
Il teorema di Erdoğan è che le manifestazioni di Gezi non erano altro che una operazione criminale per sovvertire l’ordine istituzionale e rovesciare il suo governo e che dunque bisognava punire coloro che le avevano orchestrate e finanziate.
L’assoluzione avrebbe reso questo teorema infondato e indirettamente si sarebbero legittimate quelle proteste antigovernative spontanee, partite dal basso, sganciate dai partiti e da qualsiasi ideologia e a cui presero parte larghi strati, trasversali, della popolazione che dicevano “no” all’autoritarismo di Erdoğan.
Kavala dunque, quel pomeriggio del 18 febbraio di due anni fa, fu assolto e stava per essere scarcerato, ma pochi minuti dopo, prima ancora di lasciare i locali della prigione di Silivri, fu raggiunto da un nuovo mandato di arresto con l’accusa di aver orchestrato il tentato golpe del 2016. Il presidente turco definì quella sentenza di assoluzione come “una manovra per cercare di liberarlo”. Fu un atto di accusa questo contro quegli stessi magistrati che avevano giudicato Kavala, anche loro colpevoli di essere al servizio di Soros che secondo il presidente “era dietro le quinte come regista occulto di una trama eversiva, come in un golpe”.
“Nessuno è da considerarsi innocente in quelle rivolte di Gezi”, aveva allora detto Erdoğan, facendo intendere che non avrebbe mai accettato alcuna sentenza di assoluzione e per questo il nuovo caso fu affidato ad un’altra Corte, la 13ª.
Il Consiglio d’Europa nel febbraio 2022 ha avviato una procedura di infrazione contro la Turchia per la mancata attuazione della sentenza della Corte europea dei diritti umani (CEDU) del 2019 che chiedeva in modo perentorio il rilascio del filantropo turco, descrivendo il caso come motivato politicamente e progettato per mettere a tacere la sua voce e quella della società civile del paese.
La procedura di infrazione potrebbe portare alla sospensione del diritto di voto della Turchia presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa o la stessa appartenenza a questa importante istituzione.
Se questo è un processo
L’intero processo è stato un susseguirsi kafkiano di manovre giudiziarie per tenere in galera il massimo esponente della società civile turca nel totale disprezzo degli standard del processo equo.
Il fatto che uno dei giudici membri della Corte fosse stato candidato nel 2018 al Parlamento per il partito di Erdoğan è solo un altro esempio sconcertante di come questo caso sia stato segnato da ingerenze politiche.
“La condanna di Kavala è stata decisa dal palazzo, egli non è stato processato da giudici, né tantomeno da un tribunale, perché questi giudici hanno operato per conto del presidente turco e non in nome della legge e del diritto”, ha sostenuto il parlamentare dell’HDP, Garo Paylan.
Kavala, la cui famiglia si trasferì dalla Grecia a Istanbul durante lo scambio di popolazione negli anni ’20, dopo aver lasciato l’azienda di famiglia nel 2002, fondò Anadolu Kültür, di cui è presidente, un’organizzazione senza scopo di lucro incentrata su progetti culturali e artistici che promuove la pace e il dialogo interetnico e religioso.
Il presidente turco ha iniziato a essere ossessionato da Kavala già prima delle proteste di Gezi, quando tra il 2012 e il 2013 il suo governo avviò un dialogo con il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), Abdullah Öcalan, col tramite di alcuni esponenti del Partito democratico dei popoli (HDP), formazione di sinistra libertaria e filocurda. Erano quelli gli anni della seconda “apertura curda”.
In quel periodo il presidente di Anadolu Kültür contribuì a realizzare una interlocuzione preziosa tra il governo e la società civile. Kavala aveva fatto parte infatti della commissione dei saggi nominata dal governo nel 2014; un pool di oltre 70 intellettuali, esperti, accademici e uomini dello spettacolo col compito di monitorare le opinioni della popolazione del sudest anatolico e per illustrare ad essa la roadmap proposta dal Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) per la risoluzione della questione curda, frutto di trattative intraprese dall’esecutivo con il leader del PKK, Öcalan, detenuto nel carcere di massima sicurezza di İmları; accordo che poi fallì pochi mesi dopo. Erdoğan cercava allora il sostegno dei curdi per raggiungere in Parlamento la maggioranza dei due terzi necessaria per cambiare la Costituzione, introducendo il sistema presidenziale che gli avrebbe consentito di concentrare nelle proprie mani quasi tutto il potere e per questo aveva dato il via all’apertura curda.
Ma sia Kavala che il carismatico leader fondatore dell’HDP, Selahattin Demirtaş, anch’egli ora in carcere, avevano mostrato la loro contrarietà alla riforma presidenzialista. Kavala sosteneva che l’introduzione del sistema presidenziale avrebbe portato alla trasformazione della Turchia in un regime fortemente autoritario. E ciò ha aperto la strada alla vendetta del presidente turco.
Con la rottura del processo di pace col PKK e col successo elettorale del filocurdo HDP, Erdoğan perse la maggioranza assoluta in Parlamento e poco dopo strinse un’alleanza con gli ultranazionalisti dell’MHP, che segnò la fine della politica di apertura verso i curdi. Ankara da allora non ha mai visto di buon grado il sostegno che Kavala offriva alla società civile liberale, laica e d’opposizione del Paese.
Il 18 ottobre del 2017, di ritorno da Gaziantep, dove aveva partecipato ad una conferenza sui diritti umani del Goethe Institute, il filantropo venne arrestato all’aeroporto Atatürk di Istanbul.
Ha trascorso i suoi primi 16 mesi in carcere senza che fosse stato formulato per lui alcun capo di imputazione.
Solo dopo ha potuto conoscere il motivo del suo arresto, che non conoscevano nemmeno i suoi avvocati. Si sapeva soltanto che era stato additato dal presidente e dai media filogovernativi come un pericoloso nemico della nazione: una persona scomoda da silenziare, rinchiudendolo in carcere in attesa di trovare un reato di cui accusarlo.
L’atto d’accusa, poi formulato, è racchiuso in 657 pagine con le quali la 30ª Alta Corte penale, il 4 marzo 2019, chiedeva l’ergastolo aggravato per 16 imputati, tra cui Osman Kavala, pur in assenza di alcuna prova documentale. Il processo a suo carico è stato condotto ignorando le leggi e le regole procedurali esistenti e vigenti nello stesso ordinamento turco.
Sono state prodotte testimonianze forzate e incriminazioni che si sono trasformate in documenti di vergogna per tenere in prigione il filantropo.
Ogni qualvolta le accuse, del tutto fantasiose, per le quali non è stato possibile presentare prove concrete, crollavano ad una ad una, ne venivano prodotte di nuove con espedienti che forzavano la legge, pur di evitare la scarcerazione e tenere Kavala con le spalle al muro, in spregio a qualsiasi scrupolo per il diritto. Sino all’epilogo di questa settimana, con la sentenza di ergastolo aggravato.
Sul destino di Osman Kavala scende la notte più nera. Così come sullo stato di diritto in Turchia.
Foto: Una manifestazione di protesta contro la condanna all’ergastolo di Osman Kavala – Istanbul, 26 aprile 2022 (Yasin Akgul / AFP).