Una settimana fa, Donald Trump ha ottenuto una netta vittoria su Kamala Harris nelle presidenziali statunitensi soprattutto a causa di un generale spostamento a destra del Paese. Stati chiave come la Georgia e il Michigan, un tempo blu, ora sono rossi, e le aree urbane – storicamente roccaforti democratiche – hanno spostato il loro voto verso il Partito repubblicano. Reset ha chiesto a Jeffry Frieden, docente di Scienze politiche e Affari internazionali alla Columbia University, cosa abbia spinto gli elettori, quali siano le implicazioni di questo spostamento a destra per i valori democratici e se Trump riuscirà a mantenere le sue ambiziose promesse elettorali.
La democrazia liberale è stata sacrificata in favore di benefici economici a breve termine? In altre parole, perché gli elettori a basso reddito, che tradizionalmente votavano per i democratici, hanno votato in massa per i repubblicani?
Dobbiamo fare attenzione a trarre conclusioni sullo stato della democrazia liberale da questa o dalle recenti elezioni, dove sembra che le persone siano titubanti o addirittura respingano i principi democratici liberali. Gran parte delle evidenze suggerisce che le persone non votino sulla base di principi orientati alla democrazia liberale. Nel contesto americano, spesso gli elettori minimizzano, ignorano o non credono nemmeno alle accuse mosse contro i propri avversari di rappresentare una minaccia per la democrazia.
Nell’ultima campagna elettorale, i repubblicani hanno descritto i democratici come minacce per la democrazia, e i democratici hanno fatto lo stesso con i repubblicani. Questo rende difficile interpretare i risultati elettorali. La ricerca socio-scientifica suggerisce che la democrazia, come principio, non sia molto importante per la maggior parte degli elettori. Piuttosto vuole candidati che perseguano i propri obiettivi, anche se questo significa utilizzare metodi che alcuni potrebbero considerare antidemocratici. Esistono forse dei limiti a questa tendenza. Nel contesto americano, tentativi palesi da parte dell’esercito di sovvertire la volontà chiara degli elettori sarebbero probabilmente contrastati sia dalle istituzioni che dai cittadini.
Tuttavia, i risultati elettorali, così come le prove di ricerca sociale, sono ambigui su questo, quindi non lancerei ancora l’allarme. Sembra che un numero crescente di americani, sia a sinistra che a destra, sia sempre più disposto a usare mezzi antidemocratici per perseguire obiettivi che considerano cruciali. La realtà è che c’è una crescente disponibilità a sostenere azioni che esulano dalle norme delle democrazie istituzionali consolidate per perseguire obiettivi ideologici o politici specifici.
Sul piano economico, il programma repubblicano sembra capitalizzare le percezioni di insicurezza finanziaria. Come mai decenni di deregolamentazione economica – politiche che non hanno tipicamente favorito la classe lavoratrice – sono diventati bersagli su questioni come inflazione e immigrazione?
Posso individuare due filoni principali nella campagna repubblicana, che emergono anche dai sondaggi dell’opinione pubblica: uno si concentra sull’economia, l’altro su una serie di questioni sociali o culturali. I sondaggi mostrano chiaramente che le persone sono insoddisfatte dello stato dell’economia, e la loro insoddisfazione è legittima e comprensibile. L’economia negli Stati Uniti è cresciuta, ma gran parte di quella crescita ha ignorato la classe media – una tendenza che dura da oltre 30 anni. In alcuni focus group di elettori indecisi pubblicati sul New York Times e altri media, la maggior parte ha sostenuto che le cose andavano meglio sotto Trump. In termini di crescita media, come il PIL pro capite, la differenza è modesta. Ma se guardiamo al reddito medio reale delle famiglie – cioè il 50esimo percentile, per definizione la classe media – è cresciuto dell’8-10 per cento durante gli anni di Trump ed è rimasto stabile o leggermente diminuito durante gli anni di Biden.
E il motivo è l’inflazione. I redditi della classe media non hanno tenuto il passo con l’inflazione negli ultimi quattro anni. I democratici potrebbero sostenere che la crescita economica avrà effetti positivi a lungo termine, ma le persone hanno percepito l’impatto direttamente nel proprio portafoglio: i prezzi sono aumentati in media del 25 per cento, mentre gli stipendi solo del 15 per cento. Questo ha creato la forte percezione tra molti elettori – altrimenti indifferenti alle questioni sociali o culturali – che vi fosse una differenza economica rilevante tra gli anni di Trump e quelli di Biden.
Ciononostante, la polarizzazione politica sembrava indicare che molti avessero deciso per chi votare ben prima del 5 novembre…
Nel sistema americano, circa l’85-90 per cento degli elettori sostiene costantemente lo stesso partito, quindi le elezioni si giocano sul restante 10-15 per cento, indeciso. Ogni quattro anni, questo gruppo vota in base alla percezione di come vanno le cose: un “pollice su” o “in giù” alla situazione attuale. Questa volta ha dato un “pollice in giù” economico. Per capire cosa stia guidando la politica americana, è essenziale concentrarsi su un gruppo specifico: quegli elettori che hanno sostenuto Barack Obama due volte, poi Trump, poi Biden e ora di nuovo Trump. Questo gruppo – circa 8-10 milioni di persone, o circa il 3-4 per cento dell’elettorato – rappresenta i classici elettori indecisi. Di classe media e lavoratrice ed etnie diverse. È significativo che oltre il 20 per cento dei neri si sia espresso per Trump quest’anno, insieme a un aumento del sostegno tra le donne nere e a un notevole incremento dei voti ispanici e latini, passati dal 30 per cento al 45 per cento secondo gli exit poll. Questo modello sfida qualsiasi narrazione secondo cui le elezioni sono state esclusivamente una reazione dei bianchi contro le minoranze: porzioni significative delle comunità minoritarie hanno sostenuto Trump, più che nel 2016 o nel 2020.
E per quanto riguarda le questioni socio-culturali?
Tradizionalmente, la “politica sociale” si riferisce a questioni come l’assicurazione contro la disoccupazione, quella per l’invalidità e l’assistenza sanitaria. Ma oggi quando si parla di questioni sociali, spesso ci si riferisce a temi come i diritti dei gay, i diritti delle persone transgender, i diritti delle minoranze e la politica dell’identità. Se dovessi riassumere questo insieme di temi sul divario socio-culturale, direi che gran parte si concentra sulla politica dell’identità, che è un cambiamento interessante di per sé.
La prima volta che ho incontrato il termine “politica dell’identità”, veniva utilizzato per descrivere la supremazia bianca – nel tentativo di convincere i lavoratori bianchi che non avevano nulla in comune con i lavoratori neri e ispanici. Oggi, la “politica dell’identità” ha un significato molto diverso. Si riferisce all’accento posto sulla propria identità come persona LGBTQ+, transgender, nera, ispanica, ebrea o qualsiasi altra categoria identitaria. Tutto ciò è diventato popolare nei campus universitari e nelle città liberali e istruite. Tuttavia, è molto impopolare tra le classi lavoratrici e medie americane, che lo vedono come una forza divisiva e resistono alle richieste “di trattamento speciale”. Questo è forse più un problema culturale o sociale: meno di un terzo degli americani ha un diploma di laurea, e gran parte di questa retorica risuona principalmente tra chi ce l’ha. Due terzi degli americani, quelli senza una laurea, non si identificano con le questioni che sono culturalmente e socialmente importanti in luoghi come New York, San Francisco o Chicago.
C’è un divario culturale e intellettuale significativo nel Paese su come la società dovrebbe essere compresa, quale ruolo dovrebbe giocare il governo e come gli individui si relazionano alla società. Questo divario si estende a questioni come l’applicazione della legge, la mancanza di alloggi e ciò che alcuni vedono come un dibattito più ampio sui diritti sociali e umani rispetto alla conservazione degli ambienti e delle comunità in cui vivono.
Quindi, la percezione tra gli elettori che si sentono sempre più insicuri è ancora quella che i Democratici non tengano conto delle preoccupazioni riguardo all’ordine pubblico?
Molti ritengono che le politiche progressiste abbiano portato all’illegalità, all’insicurezza e ad altre conseguenze negative. Quello che cerco di dire è perché alcuni credano che le politiche associate all’ala progressista del Partito democratico siano andate troppo oltre. Mentre molti sarebbero d’accordo sul fatto che affrontare questioni come la mancanza di alloggi e prendersi cura delle persone più povere sia importante, sentono che queste politiche siano state portate all’estremo – spesso in modi che ledono i diritti degli altri. Questo è un punto di vista comune, anche nelle città liberali e democratiche. Infatti, Trump ha ottenuto risultati migliori in città come New York, San Francisco e Chicago nel 2024 rispetto alle elezioni precedenti. Una lezione chiave di queste elezioni – e da molte altre nei Paesi industrializzati avanzati negli ultimi 5-10 anni – è che il centro-sinistra deve seriamente riflettere su come e perché ha perso il sostegno delle classi lavoratrici e medie.
Quali alternative possono perseguire i democratici per riconquistare gli elettori della classe lavoratrice, in particolare quelli nelle comunità colpite negativamente dal commercio e dalla liberalizzazione economica, senza fare affidamento su reti di sicurezza sociale percepite come assistenzialismo?
Credo che le persone vogliano lavoro, non assistenza. In situazioni estreme, se qualcuno è affamato o disabile, il supporto diretto è quasi sempre ben accetto. Ma qui parliamo di intere regioni, interi paesi e piccole città che sono in declino da venti, trenta, persino quaranta anni, bloccate in una spirale discendente difficile da interrompere. Per affrontare questo problema, dovremmo concentrarci sui problemi più ampi che affrontano queste comunità nel loro insieme. Invece di dare ai singoli aiuti diretti, potremmo investire in scuole, infrastrutture locali e incentivi per le imprese private a investire nella comunità. In effetti, molte iniziative dell’amministrazione Biden – come il disegno di legge sulle infrastrutture, il CHIPS Act e l’Inflation Reduction Act [la legge per ridurre l’inflazione, Ndr] – sono passi in questa direzione, con l’obiettivo di rendere la costruzione di strutture e la creazione di posti di lavoro in comunità trascurate da decenni attrattive per le aziende private.
Un problema che Biden e Harris hanno affrontato è che questo tipo di sforzi richiede tempo per mostrare risultati concreti. Investire in strade, infrastrutture e scuole può risollevare le comunità in difficoltà ma non dall’oggi al domani. Tuttavia, credo che questa sia la strada giusta: implementare politiche che aiutino le comunità a risollevarsi. Le aree chiave su cui concentrarsi includono l’istruzione, le infrastrutture e quello che chiamiamo “sviluppo della forza lavoro”. Questo approccio prevede il coordinamento del governo con i college comunitari, le scuole superiori e il settore privato per garantire che le persone stiano apprendendo le competenze di cui le aziende hanno bisogno.
Questo potrebbe essere applicato a queste comunità più colpite?
Uno dei paradossi dell’economia attuale è che, nonostante la carenza di manodopera, c’è una discrepanza nelle competenze. Le aziende hanno bisogno di lavoratori con competenze specifiche, come la programmazione o competenze linguistiche avanzate, ma faticano a trovarli in luoghi come Kent, Ohio, o Erie, Pennsylvania. Nel frattempo, aree come New York e San Francisco, con popolazioni altamente istruite, non sono dove la domanda è maggiore. Questo divario di competenze riflette sia un fallimento sociale che governativo nell’affrontare i bisogni economici di regioni da tempo in declino.
Perché, secondo lei, i mercati hanno reagito così positivamente all’elezione di Trump, data la potenziale inflazione derivante dalle sue politiche economiche e dai piani di deportazione? Gli effetti dell’inflazione saranno semplicemente “rinviati”, mentre l’economia beneficerà invece di recenti politiche come il CHIPS Act e l’Inflation Reduction Act?
Credo che la ragione principale per cui i mercati sono schizzati in alto dopo l’elezione di Trump sia che, se Trump rappresenta una cosa è la riduzione delle tasse e la deregolamentazione. Non sorprende che ciò sia molto popolare tra i ricchi: ridurre le tasse sui benestanti, abbassare l’aliquota fiscale per le aziende e deregolamentare il business – come Trump ha già fatto in passato – è favorevole alla maggior parte delle imprese. Tuttavia, ci sono contraddizioni evidenti nell’agenda economica di Trump. Ad esempio, i dazi sono altamente inflazionistici perché aumentano direttamente i prezzi, e anche i tagli fiscali possono alimentare l’inflazione. Dato che la maggior parte della spesa pubblica è già bloccata in settori come la Sicurezza Sociale, Medicare e la difesa – programmi che Trump dice di non voler tagliare – il deficit aumenterà quasi certamente, contribuendo all’inflazione.
Al momento però il governo statunitense ha dimostrato di poter prendere in prestito ampiamente senza generare una grande inflazione, e la Federal Reserve rimane indipendente. Come dice Jerome Powell, la Fed resterà indipendente finché sarà in carica, il che potrebbe controbilanciare l’inflazione. Ma quello di Trump è un approccio populista classico: promettere tagli fiscali e deregolamentazione ai ricchi, promettendo al contempo tasse più basse e maggiori spese per le classi medie e lavoratrici. È un po’ una chimera; non riesco a immaginare che anche solo la metà di queste promesse venga mantenuta. Vedremo.
Finora ci siamo concentrati su cosa rivelano i risultati riguardo agli Stati Uniti. Quali pensa siano le ripercussioni globali di queste elezioni?
Sebbene quasi tutta l’attenzione negli Stati Uniti sia stata e continuerà a essere concentrata sulle questioni interne, credo che alcune delle implicazioni più serie della vittoria di Trump siano di natura internazionale. Qualunque cosa si possa dire delle politiche economiche interne di Trump, è chiaro, sin dalla sua prima amministrazione, che non crede nelle istituzioni multilaterali che hanno definito il mondo occidentale dal 1945. Non considera queste istituzioni al servizio degli interessi americani e non pensa che gli Stati Uniti debbano seguire le regole e le norme stabilite che hanno governato il commercio, la finanza e gli investimenti internazionali negli ultimi 80 anni. Credo che questa direzione potrebbe portare a tempi molto difficili e travagliati nell’economia internazionale. Ignorare le fondamenta multilaterali e istituzionali dell’ordine economico globale costruite in decenni non è, a mio avviso, nell’interesse dell’America, né è favorevole a un mondo stabile e prospero. Ma sembra chiaro che questa sia la strada che l’amministrazione Trump seguirà.
Immagine di copertina: Donald Trump a un evento elettorale a Potterville, Michigan il 29 agosto 2024. (Photo by JEFF KOWALSKY / AFP)