La corsa a ostacoli della Macedonia (del Nord) verso l’Europa

“Trenta bandiere sventoleranno insieme, simbolo della nostra unità e della nostra solidarietà”. Con queste parole solenni, pronunciate lo scorso marzo in una cerimonia per il resto di basso profilo, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha dato il suo formale benvenuto nell’organizzazione alla Repubblica della Macedonia del Nord.

La Grecia ci ha messo quasi trent’anni a ritirare il veto sull’integrazione euro-atlantica del suo vicino settentrionale per via di una disputa sul nome. ‘Repubblica della Macedonia del Nord’ è stato il sudato compromesso raggiunto il 12 giugno del 2018 sul lago di Prespa, al confine tra la Grecia e il Paese ex jugoslavo, dal Primo Ministro Alexis Tsipras e dal suo omologo macedone Zoran Zaev.

L’accordo, criticato duramente dalle opposizioni politiche interne di entrambi gli Stati, ha spianato la strada della Macedonia del Nord non solo verso la Nato, ma anche verso l’Unione Europea. Skopje, che era stata ammessa nell’Onu nel 1993 con il nome provvisorio ‘FYROM’ (Former Yugoslav Republic of Macedonia), aveva ottenuto lo status di Paese candidato dell’Ue già nel 2005. Ma l’iter di adesione si è potuto sbloccare solo dopo che l’accordo di Prespa è stato ratificato.

La Commissione Europea è stata incaricati di preparare il quadro negoziale per l’Albania e la Macedonia del Nord solo a marzo, dopo che la decisione di Emmanuel Macron di congelare le procedure aveva indotto Zoran Zaev a rassegnare le dimissioni a gennaio, lasciando il Paese in mano a un governo di transizione che resterà in carica fino alle prossime elezioni generali.

I negoziati stanno per essere finalmente riavviati, ma tra la Macedonia e l’appartenenza all’Unione si frappongono ancora diversi ostacoli che proiettano ombre di incertezza sul futuro del Paese ex jugoslavo. Se le relazioni diplomatiche con la Grecia sono significativamente migliorate, quelle con la Bulgaria hanno infatti preso una piega allarmante.

 

La questione macedone

Il nazionalismo e la violenza etnica che ha portato con sé ha preso piede nei Balcani piuttosto tardi, importato dall’Europa occidentale. Ancora all’inizio del 20° secolo, quando ai contadini slavi ortodossi che vivevano nella Macedonia ottomana veniva chiesto se si sentissero greci o bulgari, questi non capivano nemmeno la domanda. ‘Siamo cristiani!’, rispondevano.[1]

Durante i quattro secoli di dominazione ottomana, le differenze etniche tra le popolazioni balcaniche semplicemente non erano rilevanti. Ma quando il nazionalismo ha fatto presa, la Macedonia —che includeva la Macedonia del Nord ma anche buona parte di quello che ora è il Kosovo, la Grecia settentrionale e parti della Bulgaria occidentale— ha fatto presto a diventare l’oggetto del desiderio dell’irredentismo bulgaro.

I bulgari si sentivano traditi dalle grandi potenze europee, che gli avevano sottratto l’enorme porzione di Macedonia garantita loro dopo la fine della Guerra russo-turca nel 1878. La Gran Bretagna e l’Austria erano terrorizzate dalla presenza di una grande Bulgaria sotto l’egida russa, e fecero pressione per smembrare lo stato balcanico in due parti più piccole, restituendo la Macedonia all’Impero Ottomano. Ma l’idea romantica di una Grande Bulgaria rimase.

Sofia ha oggi abbandonato le sue rivendicazioni territoriali sulla Macedonia, ma considera ancora il linguaggio macedone nient’altro che un dialetto bulgaro, e mette in discussione l’esistenza di un’etnia macedone distinta da quella bulgara.

 

Un vicino ingombrante
Sono queste controversie storiche, che toccano le corde più profonde dell’identità nazionale dei due Paesi, che il trattato bilaterale di Amicizia, Buon Vicinato e Cooperazione ha cercato di dirimere nel 2017. I due Paesi hanno deciso di intensificare i loro scambi economici migliorando le infrastrutture, e la Bulgaria si è impegnata a sponsorizzare l’integrazione euro-atlantica della controparte macedone. Il trattato ha anche istituito una commissione di storici per raggiungere ‘un’interpretazione oggettiva, scientifica degli eventi storici’ e modificare di conseguenza i libri di testo scolastici.

Alla firma del trattato, il Primo Ministro Zaev e il suo omologo bulgaro Boyko Borisov hanno deposto insieme dei fiori sulla tomba di Gotse Delchev, un rivoluzionario attivo nella Macedonia ottomana a cavallo tra il 19° e il 20° secolo, rivendicato da entrambi i Paesi come un loro eroe nazionale. Ma quel gesto simbolico di riconciliazione non è riuscito a porre fine alla disputa su Delchev, che presto è diventata motivo di forti tensioni fra gli storici della commissione. La decisione presa unilateralmente dalla Macedonia del Nord lo scorso novembre di sospendere fino a data da destinarsi il lavoro degli esperti è stata percepita a Sofia come una mancanza di buona fede.

Krasimir Karakachanov, leader del partito nazionalista IMRO e ministro della Difesa della Bulgaria, ha cavalcato l’onda, sfruttando a suo vantaggio il diffuso scontento verso la Macedonia del Nord. Lo scorso ottobre, il governo bulgaro ha reso note le sue condizioni per l’accesso di Skopje all’Unione Europea, elencando una serie di condizioni da soddisfare prima dell’approvazione del quadro negoziale.

Lo scorso marzo, ai margini delle conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea sull’allargamento, la delegazione bulgara ha ribadito la sua inflessibilità: la commissione di storici deve riprendere il lavoro interrotto; la Macedonia del Nord deve abbandonare qualsiasi accenno all’esistenza di una ‘minoranza macedone’ in Bulgaria; e soprattutto, le istituzioni europee non devono riferirsi, in sede ufficiale, a una ‘lingua macedone’, usando invece la parafrasi ‘la lingua ufficiale della Repubblica della Macedonia del Nord’.

La storia è spesso vista come una massa inerte di fatti più o meno coerenti, il cui studio rigoroso permette —nel migliore dei casi— di non ripetere gli errori del passato. La questione macedone mostra invece che, soprattutto quando si ha a che fare con il nazionalismo, la storia assomiglia piuttosto a un campo di battaglia di interpretazioni tra loro confliggenti, da cui dipendono il presente e il futuro.

Secondo Yorgos Christidis, docente di Politica Comparata dei Balcani all’Università della Macedonia di Salonicco, con le sue mosse recenti la Bulgaria ‘si è legata a una posizione diplomatica molto chiara nei confronti della Macedonia del Nord, creando uno stallo che potrà essere risolto solo con tanta creatività’. L’unica soluzione plausibile potrebbe essere una formula che permetta ai due Paesi di ‘raggiungere un accordo sul fatto che sono in disaccordo’, e passare oltre.

 

Promessa sposa

Ulteriori ritardi nell’adesione all’Ue potrebbero provocare delusione tra i macedoni, fornendo alla Cina, alla Turchia e alla Russia l’occasione perfetta per subentrare e colmare il vuoto lasciato dall’Unione. Ma nonostante la crescente influenza economica di Pechino e di Ankara nei Balcani occidentali, l’UE rimane il partner principale di Skopje.

Nel 2019, l’Ue è stata la destinazione del 75% dell’export della Nord Macedonia, che a sua volta ha fatto ricorso al mercato unico per il 60% dell’import, per un volume totale degli scambi di circa 10 miliardi. Ma l’Ue ha anche aiutato a garantire stabilità al Paese, rafforzando lo stato di diritto dopo lo scandalo intercettazioni che nel 2015 ha coinvolto l’allora Primo Ministro Nikola Gruevski, leader del partito nazionalista VMRO-DPMNE. Le istituzioni europee hanno mediato tra Gruevski e il principale partito di opposizione, l’Unione Socialdemocratica (SDSM): il suo leader, Zoran Zaev, è diventato capo del governo dopo le elezioni anticipate dell’anno successivo. Quanto a Gruevski, condannato a due anni di carcere per l’acquisto di un’automobile di lusso, è fuggito in Ungheria, dove gli è stato concesso l’asilo politico.

Zaev ha consacrato il suo mandato all’integrazione euro-atlantica del Paese. Lo scorso ottobre, quando Macron ha bloccato l’apertura dei negoziati nel corso di un summit a Bruxelles. il leader di SDSM ha indetto elezioni anticipate prima di dimettersi da primo ministro.

Le elezioni, inizialmente previste per la metà di aprile ma rinviate per via della pandemia, si terranno il prossimo 15 luglio. La nuova data, ufficializzata lunedì, è stata oggetto di contrasto tra i due partiti principali: i Socialdemocratici spingevano per accelerare le operazioni e aprire i seggi già ai primi di luglio, sull’onda dell’entusiasmo per l’accesso alla Nato e per l’inizio dei negoziati con l’Unione. VMRO-DPMNE, viste le difficoltà che il Paese sta avendo nel contenere la risalita dei contagi, voleva rimandare le elezioni e magari cavalcare il malcontento popolare che presumibilmente scaturirà dall’impatto economico della pandemia.

Tutti i principali partiti, inclusi quelli che rappresentano la minoranza albanese, sono favorevoli all’adesione all’Ue, ma VMRO-DPMNE —che ha criticato gli accordi con la Bulgaria e con la Grecia, ritenendoli sacrifici superflui e inaccettabili— potrebbe adottare una linea meno accomodante verso i vicini, arrivando allo scontro diplomatico con Sofia. La commissione di storici tornerà probabilmente a riunirsi dopo le elezioni, ma non avrà gioco facile nel trovare formule che soddisfino l’opinione pubblica di entrambe le nazioni.

Un recente sondaggio dell’International Republican Institute mostra che il 74% dei macedoni è favorevoli all’accesso all’Ue, ma oltre il 60% degli intervistati ha ancora un’opinione sfavorevole della Grecia, e il 56% non vede di buon occhio la Bulgaria. Skopje avrà pure compiuto un balzo decisivo verso l’integrazione euro-atlantica, ma il suo futuro resta legato a un filo sottile. È il filo del passato.

 

[1] Vedi M. Mazower, The Balkans: From the End of Byzantium to the Present Day, Midsomer Norton, Weidenfeld & Nicholson, 2000.

 

Foto: Robert Atanasovski / AFP

  1. Una battuta… paradossale: dobbiamo rimpiangere gli imperi transnazionali dell’inizio del XX secolo, in cui etnie e culture diverse convivevano pacificamente? Lo smembramento dei suddetti imperi con la nascita degli stati-nazione ha dato il la a continue lotte per l’affermazione e il prevalere di nazionalità a scapito di altre. Certo, i germi di questi fenomeni erano ben visibili già all’interno degli imperi. Ma se lo stato-nazione ha la pretesa di essere del tutto omogeneo da un punto di vista etnico e culturale, l’instabilità è inevitabile.

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