Uno dei punti salienti del programma della nuova amministrazione di Donald Trump è il suo impegno a cancellare lo ius soli nel suo primo giorno da presidente, come da lui dichiarato più volte. Usando quindi lo strumento del decreto esecutivo. Non dovrebbe essere così semplice. Per capire però come funziona la cittadinanza negli Stati Uniti bisogna risalire fino alle origini della Repubblica, ai tempi della prima amministrazione presidenziale di George Washington, quando con il Naturalization Act del 1790 si stabilisce che possono ottenere la cittadinanza tutte le “persone bianche di buon carattere”. Una dicitura che esclude automaticamente i nativi americani e le persone di origine extraeuropea. Di fatto, dato lo status delle donne come incapaci di possedere proprietà per conto proprio, escludeva anche l’universo femminile.
Queste maglie così strette si sono aperte piano piano: nel 1831 con il Trattato di Dancing Rabbit Creek viene estesa ai membri della tribù Choctaw. Il resto dei nativi lo avrà solo con l’Indian Citizenship Act del 1924. Per gli afroamericani, invece, nel 1857 la sentenza Dred Scott v. Sanford negava la possibilità che gli afroamericani potessero in qualche modo essere cittadini. Il verdetto era stato scritto da un giudice come Roger Taney, un possessore di schiavi che secondo lo storico Paul Finkelman aveva mostrato di credere profondamente nella “peculiare istituzione” anche prima di prendere quella che è stata definita come “la peggior decisione” nella storia della Corte Suprema americana. Da quel momento l’indignazione legata alla sentenza fu uno dei motivi che contribuì a incendiare gli animi dell’opinione pubblica al Nord, che cominciò a credere all’esistenza di uno “slave power” che segretamente controllava il governo federale. Anche da questo si scatenò la guerra civile.
Dopo il conflitto, venne approvato il quattordicesimo emendamento della Costituzione Americana nel 1868: tutti i maschi nati sul suolo americano potevano diventare cittadini. Le donne hanno dovuto aspettare fino al 1907 per godere appieno di questo diritto. Fine del razzismo istituzionale? No. Già nel 1870 una legge ordinaria esclude nuovi cittadini di origine cinese. Nel 1898 una sentenza della Corte Suprema, la United States v. Wong Kim Ark, riconosceva la cittadinanza al figlio di due cittadini cinesi muniti di regolare permesso.
Con la legge sull’immigrazione del 1952 finiscono i distinguo di razza e sesso. Soltanto nel 1965 però, con l’Immigration and Nationality Act firmato dal presidente Lyndon Johnson, viene abolito il sistema di quote che, a partire dagli anni ’20, prediligeva l’immigrazione bianca e nordeuropea. Fino a quel punto, infatti, l’85 per cento dei nuovi americani era caucasica, mentre soltanto l’11 per cento era nera e uno striminzito 4 per cento era di ascendenza latinoamericana. Solo allora, infatti, l’America comincia ad accogliere in gran parte rifugiati politici da ogni Paese del mondo. La retorica della Guerra Fredda vedeva gli Stati Uniti come “l’ultima speranza sulla Terra” per chi veniva politicamente perseguitato (quantomeno da regimi alleati dell’Unione Sovietica) e quindi, nonostante venisse posta una quota massima di 120mila nuovi ingressi dal resto delle Americhe, il Paese ha cominciato a cambiare faccia e ad accogliere un sempre maggior numero di nuovi cittadini di origine asiatica e africana. Nonostante queste aperture, non è ancora chiaro, dal punto di vista giuridico, il destino invece dei figli dei migranti irregolari. Il verdetto del 1898 finora è stato inteso come applicabile anche a loro, per una sorta di prassi normativa, ma la Corte Suprema non si è mai espressa in modo chiaro e potrebbe farlo presto, specie se Trump decidesse di emettere un decreto d’urgenza sulla questione.
Si tratta di un tema su cui il mondo cattolico americano si sta dividendo su basi politiche. I fedeli conservatori vedono con favore il provvedimento mentre quelli più progressisti si oppongono. La Conferenza episcopale americana si è espressa in modo abbastanza chiaro, mettendo in guardia i legislatori sulla potenziale creazione di una classe subalterna di bambini “senza cittadinanza”. Secondo una nota redatta dalla portavoce Chieko Noguchi, “serve una riforma dell’immigrazione che sani un sistema fallato e che promuova la dignità della persona e il bene comune”.
Che fare dunque? Per orientarci in questo ecosistema politico-religioso Reset ha raggiunto il professor Massimo Faggioli, teologo, docente alla Villanova University, anche per i vescovi “la questione è posta in secondo piano rispetto al tema dell’aborto, giudicato invece ‘preminente’ in diversi documenti ufficiali”. Secondo lo studioso, autore del libro Dio e Trump edito da Morcelliana che analizza proprio il rapporto tra il neopresidente e i cattolici, il tycoon ha goduto di una certa benevolenza da parte dei vescovi per aver “mantenuto la promessa di cambiare la normativa federale sull’aborto tramite la Corte Suprema”. In teoria sul tema, spiega Faggioli “ci sarebbe un’unità sostanziale perché la Chiesa Cattolica americana è stata costruita di fatto da comunità di migranti a partire da fine Ottocento”.
In pratica però c’è una spaccatura anche su questo. Lo dimostrano le dichiarazioni rilasciate al National Catholic Register da Ken Cuccinelli, cattolico conservatore, ex procuratore generale della Virginia ed ex direttore del Servizio Immigrazione federale ai tempi della prima amministrazione Trump, già adesso l’America è sufficientemente generosa nel fare la sua parte e che chi viola le leggi entrando illegalmente nel Paese debba essere sanzionato in qualche modo. A parere di Cuccinelli, sono proprio loro a non rispettare la loro parte del patto “che riguarda il rispetto delle norme del paese che ti accoglie”. Infine, un punto su cui Cuccinelli vorrebbe porre un freno è quello che riguarda il modo in cui, a suo avviso, alcuni migranti usano i figli per ancorarsi dal Paese. Un timore che alligna anche in molti cattolici conservatori, tra i quali ci sono anche molti latinos che, come dice Faggioli “alle urne hanno “tradito” i loro compatrioti che cercano di entrare nel Paese”.
Questa linea di pensiero, molto lontana dalle idee della Chiesa di Papa Francesco, per Faggioli ha portato a uno scisma “liquido”. Secondo il teologo “questa situazione dove progressisti e conservatori cattolici si ‘scomunicano’ a vicenda continuerà e si aggraverà sempre più, con conseguenze sempre più presenti nella vita dei fedeli, che dovranno scegliere accuratamente le scuole a cui iscrivere i loro figli e le parrocchie da frequentare”.
Posizione opposta a quella di Cuccinelli, ad esempio, è quella della docente di etica teologica al Boston College Kristin Heyer. Una scelta del genere oltre ad essere “moralmente dubbiosa”, non fermerebbe l’immigrazione illegale, ma sarebbe soltanto un modo di “escludere certe categorie come capro espiatorio per favorire l’uso costante di una retorica populista e nativista”. Un’idea più vicina al magistero cattolico, ma del resto è stato proprio un prominente intellettuale conservatore fedele alla Chiesa di Roma, il giornalista e scrittore Garry Wills, a dire la frase “Mater sì, Magistra no” in un articolo pubblicato sulla National Review, come risposta alle aperture ritenute eccessive dell’Enciclica Mater et Magistra scritta da Papa Giovanni XXIII.
Per Faggioli, questo è un incredibile ribaltamento di fronte per un mondo come quello cattolico-conservatore che accusava “i progressisti di essere parte del ‘Cafeteria Catholicism’, ovvero di una fede che sceglie i valori in cui credere da un menù preferenziale. Ora invece sono loro ad essersi ‘evangelizzati’ e ad aver mutuato i valori delle chiese evangeliche bianche su temi come immigrazione, aborto e toni millenaristici”. Sull’accoglienza, ad esempio, la visione di queste congregazioni si è radicalizzata negli ultimi decenni in favore di una chiusura totale e di un’opposizione a qualsiasi apertura su questo tema. Quindi questo scisma “liquido” si dipana anche e soprattutto sul tema dell’immigrazione. Dove molti fedeli preferiscono Donald Trump a Papa Francesco.
Immagine di copertina: il Campidoglio americano a Washington DC. (Foto di Jakub Porzycki / NurPhoto / NurPhoto via AFP)