Il Kurdistan iracheno ha fissato la data del referendum per l’indipendenza dall’Iraq. Come annunciato dal presidente del Governo Regionale del Kurdistan, Krg, Masoud Barzani, dopo una serie di incontri fra le parti politiche conclusi i primi di giugno, il giorno del voto sarà il prossimo 25 settembre.
“Il voto risolverà un conflitto vecchio quanto l’Iraq – ha detto Barzani – fra le aspirazioni del popolo curdo e il governo di Baghdad che a lungo non ha trattato i curdi come cittadini a tutti gli effetti. L’esercizio del diritto all’autodeterminazione non minaccerà nessuno e anzi potrebbe dare più stabilità alla regione. Il caso dell’indipendenza curda è stringente: cento anni fa, dopo la prima Guerra Mondiale, ai curdi venne promesso un proprio stato. E invece la nostra terra è stata divisa fra Turchia, Iran, Siria e Iraq”. Così il Presidente della regione autonoma spiega, ripreso integralmente dal Washington Post, decenni di aspirazioni e speranze fallite, oltre che di periodi di vera persecuzione, con le deportazioni e le uccisioni di massa degli anni Ottanta, e poi la rivolta curda post Seconda Guerra del Golfo, che porterà, seppure con grandi difficoltà, alle prime elezioni di un’Assemblea Nazionale il 19 maggio 1992, e all’embrione di una regione autonoma del Kurdistan.
Come scrive Maria Galletti in Storia dei curdi (Edizioni Juvence, 2014) “la consultazione elettorale di maggio è strutturata in modo che possa essere compatibile con una futura riunificazione con Baghdad, come regione autonoma o in una struttura federale, allineandosi così alla posizione occidentale – condivisa da Iran, Siria e Turchia – che l’Iraq non sia smembrato dal separatismo curdo. I curdi sanno che questa condizione di semilibertà è possibile fino a quando i paesi limitrofi considereranno il regime di Saddam Hussein più pericoloso della semi indipendenza dei quattro milioni di curdi”.
Caduto il regime baathista nel 2003, la questione delle aree contese fra il Kurdistan e il governo centrale non è mai stata risolta, nonostante i principi fissati nella nuova Costituzione del 2005: l’articolo 140 consente di indire un referendum nelle zone soggette a disputa territoriale per dirimerla, come Kirkuk, ma di fatto non è stato mai applicato, nonostante l’indicazione iniziale fosse quella di fissare una data di voto entro i due anni successivi all’emanazione della Carta.
La guerra contro lo Stato Islamico, che ha visto una collaborazione militare senza precedenti fra Krg e Baghdad, ha risollevato la questione perché il controllo effettivo del territorio ha di fatto cambiato le zone di influenza, anche se solo a livello informale. Se è vero ad esempio che i Peshmerga, i primi ad attaccare daesh a est di Mosul, si sono fermati come da accordi alle porte della città, è altrettanto vero che nel 2014 hanno impedito che anche Kirkuk cadesse nelle mani dell’Isis, e tutt’ora, tre anni dopo, stanno ancora presidiando il territorio, e si preparano a condurre la prossima battaglia, quella di Hawija, nella stessa provincia. Il Kurdistan vuole mantenere il controllo dei pozzi di petrolio del nord, e Kirkuk è l’area più ricca della parte settentrionale, ma Baghdad non vuole cederla. Con questa dichiarazione di voto, probabilmente ci sarebbero più margini di trattativa, anche perché, come è stato annunciato, il referendum si terrà anche nelle zone contese che formalmente non fanno parte della regione autonoma.
L’altra area particolarmente critica è Sinjar, vicina al Pkk, il partito dei Lavoratori del Kurdistan, ideologicamente distante dal Krg. Per questo la resistenza è entrata in un conflitto con i Peshmerga, e si è subito polarizzata: la Turchia ha minacciato un intervento di terra contro le forze vicine al Pkk, e Baghdad e le milizie sciite Pmu, Popular Mobilization Unit, hanno promesso di aiutare lo Ybs, l’Unità di Resistenza di Sinjar vicina al Pkk, contro il governo regionale. La zona, strategica perché al confine con il Rojava siriano, è particolarmente invisa ad Ankara che la ritiene una minaccia all’estendersi di una realtà curda ostile a ridosso del suo confine.
Il referendum si terrà anche a Khanaqin, parte del governatorato di Diyala e sotto l’egida del governo regionale, e a Makhmour, sotto il controllo dei Peshmerga ma con una discreta presenza di forze vicine al PKK.
Insomma lo spettro di altri focolai di conflitto appena sarà completata la missione contro lo Stato Islamico, che apparentemente ha messo d’accordo tutti contro un nemico comune, esiste con o senza referendum; anzi, la possibilità di un voto democratico, potrebbe anche avere un effetto positivo e scongiurarlo.
Barzani ha ribadito che non c’è alcun interesse nel fare un’altra guerra, e che anzi, non cambierà nulla nei rapporti e nella cooperazione militare con Baghdad e con gli altri vicini, ma allo stesso tempo ha messo in dubbio, portando ad esempio la caduta di Mosul del 2014 e poi il rifiuto del governo centrale di finanziare l’equipaggiamento dei Peshmerga, che l’unità dell’Iraq sia la strada migliore per mantenere la sicurezza di tutti. Ma l’opposizione al voto, prima che dall’esterno, è arrivata dal secondo partito curdo in parlamento, Gorran, la lista per il cambiamento che lo ha bollato come illegale. Il Kdp, il Partito Democratico del Kurdistan fondato nel 1946, ha la maggioranza in Parlamento con 38 seggi, mentre il Puk, l’Unione Patriottica del Kurdistan nato nel 1976 ne ha 18. Gorran, nato dalla scissione col Puk nel 2009, ne ha 24.
Ma le due principali forze in campo sono da sempre il Kdp e il Puk, ed entrambe spingono per il referendum, anche per tamponare un’insoddisfazione che serpeggia da qualche anno, a causa della crisi economica, dell’instabilità sociale, della battuta d’arresto degli investimenti a causa della guerra. In quest’ottica rispolverare il tema del nazionalismo curdo può aiutare a placare gli animi e ad arrivare alle parlamentari del 6 novembre con una riconfermata maggioranza.
Fuori dai confini della regione, la prima opposizione all’idea del referendum è quella sostenuta da Baghdad: la scissione infatti sarebbe complicata da tanti fattori come la gestione del petrolio, dell’acqua, della sicurezza e dell’economia in generale. E anche in caso di autonomia, il primo partner del Kurdistan sarebbe l’Iraq. La paura di Baghdad è che la fine della federazione possa aprire una deriva separatista nel paese, soprattutto ora che le Pmu sciite, Unità di mobilitazione popolare, saranno sempre meno impegnate a Mosul, mentre la presenza di un Kurdistan sunnita attenua il potere della maggioranza sciita del resto del paese.
Inoltre la fine dell’unità avrebbe ripercussioni anche sulle elezioni parlamentari irachene del 2018, perché i curdi, in caso di scissione, non avrebbero nessuna ragione di recarsi alle urne.
Nonostante fra i curdi dei quattro strati esistano divergenze politiche sostanziali, ed è improbabile che i curdi iracheni possano incoraggiare i vicini a intraprendere un percorso di autodeterminazione, Iran e Turchia non hanno speso parole favorevoli al referendum.
L’ayatollah Kamenei ha fatto sapere che la Repubblica Islamica d’Iran si oppone al tentativo di minare all’unità dell’Iraq, nonostante il sostegno al Puk nella guerra allo Stato Islamico, perché rischierebbe di trovarsi in una posizione scomoda in Siria, a proposito dei curdi del Rojava. Lo stesso vale per Ankara, già stretto partner commerciale del Kurdistan, soprattutto per l’acquisto di greggio. La Turchia importa il petrolio dal Kurdistan iracheno attraverso l’oleodotto che giunge direttamente al porto di Ceyhan, ma allo stesso tempo ha già chiarito la sua posizione sull’area contesa di Kirkuk, schierandosi a favore della minoranza turkmena e non dell’autodeterminazione dei curdi. Gli accordi fra Ankara ed Erbil hanno comunque portato il KRG ad avere un ruolo strategico di primo piano in Medio Oriente, perché la regione, oltre alle ricchezze del sottosuolo, ha dimostrato di essere capace di prendere decisioni di politica estera, anche più di Baghdad. In più, la guerra contro lo Stato Islamico ha accresciuto l’immagine di un popolo secolarizzato, coraggioso e affidabile nel resto del mondo, a differenza del governo centrale.
Questo riposizionamento ha reso il Kurdistan un interlocutore convincente anche per l’Arabia Saudita, che ha deciso di supportare il referendum, lanciando anche un messaggio trasversale alla Turchia e alla sua decisione di restare in Qatar nell’ultimo mese di crisi.