Da Reset-Dialogues on Civilizations
Prishtinë / Pristina. Non c’è da pensarci un attimo. Nessuna necessità di rifletterci su un secondo. Alla domanda “Ma tra albanesi e serbi di Kosovo, ci sono matrimoni, storie d’amore?” la risposta è un secco “No”. Rapido, senza esitazioni. Quasi che un quesito simile possa sembrare provocatorio. Utile però a capire quanto i rapporti tra le due etnie siano tesi. Qui dove nel 1999 il colpo di coda dei conflitti balcanici degli anni ’90 ha lasciato una ferita aperta, mischiarsi significa molto. È ancora troppo difficile. E se la politica sembra fare passi avanti, almeno sulla carta e soprattutto a livello internazionale, tra ‘koa’ (Kosovo albanian) e ‘kos’ (Kosovo serbians), come il politically correct made in Nato prevede, la situazione è molto differente.
Dopo 15 anni di missione internazionale che ha garantito il controllo della sicurezza, infatti, in superfice si professano spesso rapporti civili. Nel quotidiano però, la situazione è sempre tesa. La pacificazione in Kosovo è qualcosa di molto apparente, tanto che il generale Salvatore Farina, comandante di Kfor (La Kosovo Force della Nato) alla fine del suo mandato il 3 settembre ha nuovamente sottolineato la necessità di continuare con questo impegno. “Kfor è l’unica istituzione militare e di sicurezza riconosciuta da tutti”. Gli equilibri instabili soprattutto a nord, vicino al confine con la Serbia saltano con grande facilità “Malintesi, burocrazia, scambi d’accuse in luoghi dove ancora non si riconosce l’autorità e non si rispetta la legge del Kosovo, possono rappresentare una scintilla in grado di generare un incendio”. Nulla di più vero, come testimoniato da numerosi episodi di violenza e di intolleranza che spesso terminano in omicidi. Per questo l’Italia, (insieme alle molte altre nazioni che compongono Kfor), schiera ancora un contingente militare. Circa 500 uomini, divisi tra forze operative del “Multinational Battle Group West”, che si occupa di tutta la fascia occidentale del Paese e forze non operative e di contatto con la popolazione e le diverse comunità, “Joint Regional Detachment”. Occhi e orecchie che monitorano continuamente la situazione.
Situazione inter-etnica
Un giro tra le principali città del Paese o nelle ‘enclavi’ serbe, come vengono chiamate le comunità di villaggi sparsi nel Paese in atmosfere bucoliche, è sufficiente per capire quanto la situazione sia complessa e lontana da una soluzione definitiva. Di fatto, il problema è che da una parte e dall’altra si resta sulle stesse posizioni nell’analizzare ogni vicenda, passata, presente e futura. Scambi di accuse reciproche, edulcorate in pubblico e forti in contesti più intimi.
La lotta per la definitiva ‘supremazia’ albanese e la ‘resistenza’ serba non pare destinata a risolversi a breve. I primi sono determinati a conquistare la propria indipendenza senza voler dimenticare nulla degli abusi e delle violenze subite prima durante e dopo l’intervento Nato nel Paese nel ‘99, approfittando dell’appoggio internazionale incondizionato (ma molto interessato dal punto di vista dello sfruttamento e speculazione). I secondi decisi a mantenere la posizione in un pezzo del territorio storicamente Serbo, sfruttando come perno, oltre alla ‘titolarità’ del territorio della provincia secessionista, anche la posizione di luoghi culto simbolo per l’identità religiosa ortodossa serba. In particolare il Patriarcato di Peć/Peja e il monastero di Dečani, dove sono conservati quattro tra i più importanti simboli storici e di culto della chiesa ortodossa. Nulla di religioso invece per gli albanesi, musulmani o cristiani che siano, determinati a staccarsi definitivamente dalla Serbia in nome della propria identità comune.
Negli ultimi anni la comunità serba è comunque diminuita di numero. Oltre all’area della città di Gračanica e la parte nord della città di Mitrovica, la presenza è infatti a macchia di leopardo, rappresentata da piccole ‘enclavi’ e villaggi, spesso circondati da altri villaggi di albanesi, dove i serbi denunciano spesso di venire discriminati, di subire attentati, sferrati soprattutto con lo scopo di bruciare le case. Ricostruzione che si scontra con quella degli albanesi che accusano a loro volta i serbi di dare fuoco loro alle case, dopo aver incassato le sovvenzioni governative per costruirle. Da alcuni anni infatti il “Ministero per il Rientro” del Kosovo ha elaborato un piano che prevede la distribuzione di denaro e aiuti provenienti da stanziamenti esteri, soprattutto dall’Ue, destinati ai serbi e alle altre minoranze che vogliano rientrare in Kosovo dopo aver abbandonato il territorio. Ma per chi torna la vita in Kosovo di oggi non è facile.
Comunità divise e strutture parallele
Le due comunità vivono divise e i serbi mantengono una loro struttura istituzionale parallela che, sempre meno attiva dal punto di vista della sicurezza, e sempre meno sovvenzionata da Belgrado, tiene comunque in piedi alcuni servizi essenziali. Ambulatori con medici e farmaci serbi, scuole, poste e altre istituzioni. L’integrazione manca ed è poco ricercata da entrambe le parti in causa. I serbi non riconoscono il Kosovo come nazione, continuano a ritenerla una propria provincia, e questo non solo a livello dottrinale di diritto internazionale. Non riconoscono istituzioni, leggi, oltre che ospedali, programmi scolastici, cultura e lingua.
Chi si mostra disposto a farlo non incontra molti favori. Entrare in un ente pubblico o trovare un posto di lavoro per un serbo è difficile. Nelle comunità che vivono intorno alla Kek, grande centrale termoelettrica che da energia a mezza Prishtinë /Priština, i Kos si dicono discriminati. Stessa realtà a Peć/Peja. Il giovane direttore della radio di Goraždevac, Darko, nato cresciuto e sposatosi nella piccola comunità di villaggi a pochi chilometri dal centro della città lo spiega bene. Il padre è rappresentante della comunità serba al municipio di Peja. “Qui c’era una fabbrica di scarpe che dava lavoro a molte persone, soprattutto alle donne dei villaggi. Ora è chiusa, si sente qualche proclama, ma la volontà di aprire non c’è. Per le persone che vivono qui la vita è difficile. Senza le iniezioni in vena di aiuti da Belgrado molte famiglie non saprebbero come vivere: 50 o 100 euro a famiglia o forniture per le coltivazioni. Gli aiuti che arrivano dal governo e dall’Ue dovrebbero essere ponderati meglio e distribuiti in base alla necessità”.
La preoccupazione è tanta perché Belgrado sta tagliando sempre di più gli aiuti in favore dei connazionali di Kosovo. Molti di quelli che nella struttura parallela operavano nella sicurezza, sono stati integrati nella Kosovo Police, occupandosi però quasi solo dell’aree dove sono presenti i serbi. E quella voce dal bilancio è stata così decurtata. Gli accordi di Bruxelles tra Serbia e Kosovo prevedono una road map, che dovrebbe portare a piccoli passi la Serbia fuori dal Kosovo e dentro l’Ue. Da Bruxelles è arrivato il diktat: se non viene riconosciuto il Kosovo, per la Serbia non c’è speranza di entrare. Il governo di Belgrado è dunque costretto a un equilibrismo non da poco. E se, addirittura, in occasione della discussione sulle sanzioni per la crisi ucraina, per accontentare l’Ue la Serbia è disposta a mettere a rischio gli accordi economici con la Russia, è chiaro quanto i serbi di Kosovo non possano dormire sogni tranquilli.
Mitrovica, la ‘Berlino’ di Kosovo
Ma il problema, come sottolineato, non è politico-governativo, ma sociale, umano. La politica va avanti, ma quel che si muove è solo la superfice di uno stagno, dove le acque restano scure, torbide e ferme. Mitrovica è l’emblema di quanto la situazione sia ancora insoluta. La terza città del Paese, a pochi chilometri dalla Serbia è sempre stata divisa tra nord a maggioranza serba (circa 40mila residenti) e sud a maggioranza albanese (circa 80mila residenti). Dopo la guerra l’odio tra etnie è però aumentato, fino a portare alla chiusura, divenuta poi fisica e definitiva di ogni rapporto qualche anno fa, quando i serbi hanno eretto barricate sui ponti del fiume Ibar in reazione all’istituzione di dazi doganali per l’ingresso di merci serbe in Kosovo. La città è divisa in due anche dal punto di vista politico e amministrativo.
Nella parte nord, è tutto serbo, scuole, università, ospedali, e anche le targhe delle auto. La sigla che rilascia la motorizzazione Serba è KM (Kosovo Mitrovica), ma non è riconosciuta in Kosovo, dunque chi possiede questa targa, o la sostituisce per ‘passare’ a sud, o semplicemente resta a nord per evitare sanzioni. A febbraio, dopo quattro turni andati a vuoto per vari motivi, finalmente Mitrovica Nord ha eletto il suo sindaco nell’ambito delle elezioni amministrative Kosovare. Si tratta ovviamente di un serbo, Goran Rakić, che però a differenza del precedente sindaco eletto, che si era rifiutato di giurare ‘fedeltà’ a una costituzione non riconosciuta mandando a monte le elezioni, è entrato in carica. Dopo le elezioni politiche dello scorso giugno, svoltesi regolarmente, si era sperato che una soluzione alla divisione fosse vicina. I serbi avevano infatti rimosso i blocchi di cemento dal ponte sull’Ibar lasciando intendere di voler riaprire la città e il dialogo. Il gesto aveva incassato il plauso dei vertici Nato e di governo e presidenza kosovara. La speranza è durata solo 24h. Nella notte del 22 giugno infatti per ordine del sindaco Rakić nuove barricate sono state erette. Non cubi di cemento ma un prato verde, ironicamente intitolato ‘Parco della Pace’. Questa scelta aveva portato a una reazione dei cittadini del sud. Una sassaiola e un lancio di oggetti, sedati con lacrimogeni e cariche della polizia. In questa situazione incandescente, a gestire la sicurezza e a garantire controlli super partes per conto della Nato, è l’arma dei Carabinieri, con un impegno notevole garantisce controlli ‘h24’ sul territorio della città.
Agli scontri del 22 giugno, gli albanesi hanno risposto con un avanzamento tattico verso nord. Nelle ultimissime settimane infatti, nottetempo sono stati piazzati bandiere e totem improvvisati inneggianti all’Uck nel territorio di Mitrovica nord, oltre i ponti sull’Ibar, fino al limite delle prime case serbe. Una spinta in avanti che per il momento non ha avuto reazioni ma che la dice lunga sulle intenzioni dei koa di voler estendere il territorio kosovaro anche li. Una secessione, una cessione dell’intero territorio di pochi chilometri da Mitrovica verso nord alla Serbia, sarebbe impensabile. Oltre che per questioni politiche e di principio, anche per la presenza di un’importante miniera tra Mitrovica e il confine di Serbia. Questi, quelli economici, ostacoli ancor più insormontabili.
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