Da Reset-Dialogues on Civilizations
Prishtinë/Priština. L’immagine choc che prima di tutte le altre fece tremare il Paese intero fu quella del terrorista Lavdrim Muhaxheri mentre tagliava la gola di un soldato dell’esercito di Assad in Siria. Così il Kosovo, da anni obiettivo dell’azione di proselitismo da parte dell’Islam radicale, scoprì di essere ‘rappresentato’ con un proprio concittadino al vertice dell’Isis. La sconcertante scoperta fatta a luglio, per molti fu appena una triste conferma, pur sempre allarmante. Poche settimane dopo quell’episodio, a fine agosto, la notizia della morte in battaglia dello stesso Muhaxheri. A inizio novembre poi un quotidiano dell’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia, ha dato notizia dell’indicazione a capo della sezione ‘albanese’ dell’Isis di un altro kosovaro. E le prime parole del successore, Ridvan Hakifi, riportate dalla stampa balcanica, fanno ora tremare i polsi, rendendo pesante la già tesa atmosfera nel Paese.
L’imam kosovaro, dopo aver preso in mano le redini del ‘gruppo’ albanese dello Stato Islamico, ha dato l’ordine di eliminare tutti coloro che hanno contribuito al ritorno di Erion Zena dalla Siria dopo aver combattuto con le milizie del Califfo Al Baghdadi. L’ordine dell’Imam leader degli albanesi dell’Isis sposta di fatto l’allarme terroristico, con il rischio di azioni dirette anche fuori dall’area del ‘califfato’, sul territorio del Paese che solo nel 2008 ha dichiarato la sua indipendenza. La polizia ha dimostrato di avere ben chiaro il rischio e, sostenuta dalla comunità internazionale e dalle forze Eulex e Kfor, si è dimostrata anche pronta a investigare e lavorare per contrastare l’avanzata, ha fatto sapere che Hakifi non costituisce una minaccia. Il timore, dopo aver visto i propri connazionali partire numerosi per andare a combattere in Siria, è quello ora di vedere in pericolo quanti, delusi della guerra, decidono di tornare a casa. Nonostante l’arruolamento tra le fila dell’organizzazione terroristica non conosca crisi ormai da anni, i rientri continuano numerosi anche in Kosovo e per arginare questo l’Imam ritenuto a capo dei combattenti kosovari ha deciso di usare la linea dura. Per questo i rientrati di solito si chiudono in casa e cercano di rimanere lontani dai giornalisti.
La stragrande maggioranza dei kosovari che fa della tolleranza e moderazione religiosa una bandiera, non dorme sonni tranquilli. Le immagini di Muhaxheri di alcuni mesi fa hanno fatto accendere il dibattito sul rischio di deriva religiosa nel Paese. Le numerose azioni della polizia con moltissimi arresti nel corso dei mesi ha fatto il resto. E così il Paese si trova al centro dello scenario internazionale da alcuni mesi. Nonostante le istituzioni si mostrino sicure e serene, è evidente quanto tra la popolazione serpeggi la paura. Il Kosovo ha ben capito il rischio. Un anno e mezzo fa, quando le autorità hanno cominciato ad avvertire il problema, è stata varata una legge che prevede 15 anni di carcere per chi va a combattere per un qualsiasi motivo che non sia la difesa nazionale. La paura collettiva pare riuscire a superare anche le divergenze tra le due principali etnie. Di fronte alla minaccia dell’estremismo islamico non c’è ferita di guerra o divisione che tenga.
Particolarmente preoccupati sono gli albanesi, etnia maggioritaria e a maggioranza musulmana che teme profondamente la penetrazione dell’islam radicale nella società. Temono anche i kosovari che una deriva religiosa possa mettere a rischio i rapporti con l’Ue. Per questo l’attività di indagine è forte e colpisce. Ma le indagini, in realtà, sono arrivate molti anni dopo l’inizio di un lungo decennio nel quale il proselitismo è stato portato avanti in maniera strisciante. Capire quale sia il legame tra combattenti kosovari e organizzazioni terroristiche è fondamentale. Per comprendere la storia dell’estremismo islamico e la presa della rete terroristica in Kosovo, è importante capire il ruolo che rivestono alcune specifiche Ong islamiche attive nel territorio.
Il ruolo delle Ong arabe
Quando il sangue ancora bagnava il terreno dell’ultimo lembo di ex Jugoslavia interessato dal colpo di coda dei conflitti Balcanici degli anni ‘90, l’idea di sfruttare rabbia, confusione e vuoto ha spinto tante Ong a entrare nel paese. È stato il denaro che in un momento di disperazione e nelle difficoltà attuali di un paese dove lo stipendio medio è di 300 euro al mese e la disoccupazione al 50% ha fatto la differenza: aiuti, stipendi, corsi e tanti giovani inviati a studiare gratis in Arabia saudita. Ermir, 35enne imam della moschea rossa di Peç/Peja racconta: “Una dozzina di ragazzi lo scorso anno sono andati a studiare in Arabia Saudita. Due anni per la lingua, quattro anni per l’università, tutto pagato da loro, le ong arabe” questo nonostante “il titolo di studio in teologia la conseguito, non sia riconosciuto in Kosovo. Prima si è sempre andati in Turchia, Egitto, Pakistan. A Peja non c’è madrasa, gli studi islamici sono a Pristina. Per chi non ha soldi è difficile”. Cadere nella rete di chi offre tanto è di contro molto semplice.
La ricostruzione delle attività, degli obiettivi e dei risultati raggiunti dalle Ong è stata effettuata in maniera approfondita da Roberto Magni e Luca Ciccotti nel libro “Kosovo, un Paese al bivio”. Così come riportato nel testo, undici sono le più importanti organizzazioni presenti, tra le quali spicca il “Saudi Committee for United Aid” con quartier generale a Riad. Il ruolo è di coordinamento degli sforzi di tutte le Ong saudite della ex Jugoslavia finalizzate alla diffusione dell’islamismo wahabita, interpretazione che mai era stata presente prima dell’arrivo della Nato nel 1999. La principale Ong islamica in Kosovo finanzia la costruzione di moschee. Che diventano basi dell’estremismo insieme alle scuole coraniche, per predicare il wahabismo e l’islam militante. Attraverso la rete delle Ong e degli estremisti islamici, wahabiti, salafiti e combattenti mujaheddin, secondo gli autori del testo gli ‘jihadisti’ hanno potuto introdursi nei Balcani e in Kosovo. Sempre secondo la ricostruzione effettuata da Magni e Ciccotti gli estremisti islamici hanno e stanno usando le varie organizzazioni come canale ideale per la creazione di cellule terroristiche in particolari zone nonché luoghi dove far transitare terroristi, armi e denaro. Attraverso queste finte reti umanitarie gli affiliati lavorano con le organizzazioni terroristiche e criminali albanesi e dall’altro lato creano una solida base per il ‘jihad’ in Kosovo e nei Balcani. Spina dorsale di questa struttura per la guerra santa è l’ideologia wahabita, predicata in moschee e scuole coraniche finanziate dalle Ong. Obiettivi primari di questa rete sono il reclutamento e l’addestramento dei nuovi terroristi, attività celate e rese apparentemente legali attraverso le attività umanitarie. Nei mesi sono stati moltissimi i ragazzi, soprattutto giovani che sono partiti dal Kosovo verso i luoghi delle battaglie in Medio Oriente, alcuni dei quali sono diventati tristemente famosi come autori di azioni di violenza, attentati e assassinii. Molti sono morti. Altri sono rientrati, rischiando ora la vendetta degli jihadisti, annunciata direttamente dal nuovo capo della struttura albanese e kosovara dell’Isis, Ridvan Hakifi.
L’allarme degli imam
Il Paese tenta di metterci una pezza. Le istituzioni si sono rivelate abbastanza pronte. La polizia, aiutata sul campo dalle forze giuridiche e militari internazionali, riesce a dare le prime risposte. Primi a contrastare con forza l’avanzata degli estremisti in Kosovo sono gli stessi Imam, hanafiti e moderati. Coraggiosi che sfidano la violenza e la ritorsione dei membri più radicali. Zuhdi Hajzeri, trentenne imam della moschea di Tahtali a Peja dal 2010, per la sua lotta aperta agli islamici radicali, è finito nel mirino, lo scorso agosto. Racconta che “dopo un’intervista a Rtk, nella quale ho criticato le posizioni di alcuni imam, intorno alle 22 quando stavo uscendo dalla moschea, sono stato seguito in auto e dopo poco l’uomo alla guida ha tentato di investirmi. Era il cugino del capo degli imam che lui ha nominato suo vice e che già mi aveva minacciato”. A Peja c’è un reale pericolo di estremismo islamico, così come in tutto il Kosovo, “in quasi tutte le moschee si sono infiltrati elementi che vanno a pregare, ascoltano le prediche, riportano quello che si dice e cercano anche di avvicinare altre persone per fare proselitismo. Promettono che per chi muore martire, ci saranno dei premi all’aldilà. Stanno manipolando il pensiero islamico. E cercano persone che vadano a combattere in Siria. I mediatori nel reclutamento spesso sono imam che hanno studiato in Arabia Saudita e hanno rapporti con le milizie sul campo in Siria e altri luoghi” conclude Zuhdi Hajzeri.
A livello religioso si sta cercando di arginare l’avanzata, e la posizione ufficiale degli islamici kosovari è di contrasto ai valori dell’Isis. L’imam Ermir della moschea rossa di Peç/Peja afferma “Abbiamo delle linee guida e ogni venerdì invitiamo le persone a non combattere, che non è questo che l’Islam dice” sottolinea. “Molti imam motivano i ragazzi a partire per la Siria e l’Iraq. Negli ultimi mesi hanno lavorato anche nelle case private, non certo reclutano in moschea. Chi viene influenzato, prega anche in moschea con noi, ma non seguono quello che diciamo. Questi ragazzi – afferma Emir – ammazzano e credono di aver fatto bene, questo non è giusto, non si pentono. Questo è pericolosissimo”. Il Capo della comunità islamica di Prizren, area del Paese poco influenzata dalla penetrazione dell’Islam radicale, soprattutto per la presenza di una grossa comunità turca con relativi interessi nella regione afferma senza mezzi termini, “Per noi è una disgrazia per i musulmani tutti la è. Se quello è Islam, io non sono musulmano. Quello non sono i nostri valori. Non esiste nessuno Stato Islamico”. Parla a titolo personale, sottolinea. Perché parlare in via istituzionale di Islam radicale e di proselitismo in Kosovo potrebbe essere pericoloso o poco conveniente.
Nella foto: Ridvan Hakifi
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