Joseph Aoun alla guida del Libano:
finisce l’era iraniana

Sin qui comandante in capo dell’esercito, il generale Joseph Aoun è il nuovo presidente del Libano. Si chiude così un capitolo drammatico, trentennale, della tormentata storia nazionale di questo piccolo ma decisivo Paese. Dopo 26 mesi di vacanza presidenziale, la sua elezione segna ufficialmente la fine dell’epoca “iraniana” che con il successo non solo miliziano di Hezbollah, il Partito di Dio, aveva fatto del Libano l’altro terminale, sul Mediterraneo, dell’esportazione della rivoluzione khomeinista.

Per conquistare il Libano gli ayatollah si erano avvalsi dell’alleanza con il regime siriano e, col tempo, della conseguente adesione di importanti soggetti politici libanesi. Tutto questo è passato attraverso alcune delle pagine più feroci della storia nazionale dagli anni Ottanta, quando la neonata formazione miliziana ha assunto il controllo della lotta armata contro l’invasore israeliano – nel sud del Libano – in alleanza con l’altro occupante del resto del Libano, la Siria di Hafez al Assad; poi la permanenza in armi dopo il ritiro israeliano del 2000 dei miliziani di Hezbollah e la conseguente confisca della politica nazionale di difesa, passata dallo Stato alla milizia, che ha deciso in autonomia quando essa – e di conseguenza tutto il Paese – dovesse entrare in guerra. L’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri l’ha vista rischiare tutto per conquistare tutto il potere.

La sconfitta militare di Hezbollah e il crollo del regime siriano, che controllava gran parte della Siria solo grazie alla presenza dei miliziani libanesi, hanno portato allo sfaldamento del progetto khomeinista: riportare “l’impero persiano” fino al Mediterraneo facendo di Iraq, Siria e Libano ciò che l’est europeo era stato per l’Unione Sovietica e sostituire l’alleanza con il mondo arabo sunnita con l’egemonia sciita-apocalittica. Di questo progetto Hezbollah era lo strumento di propagazione e consolidamento anche in altri territori. In Libano, la milizia di Hezbollah si era impossessata dello Stato controllando la presidenza della repubblica con il precedente inquilino, il maronita Michel Aoun, il governo con il premier, il sunnita compiacente Najib Mikati, e il parlamento con il presidente alleato, lo sciita Nabih Berri. L’elezione di un presidente avverso a Hezbollah è quindi la fine dell’occupazione politica. Ora comincia il complesso smantellamento di quella militare e la ricostruzione di uno Stato sovrano e indipendente.

La prima sfida del generale Joseph Aoun infatti è quella di condurre in porto il cessate il fuoco, garantendo il ritiro di Israele e salvaguardando l’integrità territoriale del Paese tramite il vero disarmo di Hezbollah dal confine israeliano fino a trenta chilometri di distanza. Un ritiro che dovrà essere dal suolo e dal sottosuolo, cioè dai tunnel e bunker che il partito aveva costruito e che ora dovranno passare sotto il controllo dell’esercito sin qui guidato da Joseph Aoun.

I tempi stringono e i progressi auspicati sin qui non si sono visti. La data del 27 gennaio, il giorno fissato per la verifica dei reciproci impegni che dovrebbe portare alla cessazione definitiva delle ostilità, non appare dunque una scadenza dall’esito garantito.

Sono imprese ardue e collegate, che rendono evidente come il primo banco di prova del nuovo Libano di Joseph Aoun non dipenda soltanto dalla sua volontà, ma anche da quelle di Israele e di Hezbollah. Per questo alcuni immaginano possibile che nelle prossime ore Joseph Aoun possa sentirsi costretto ad accettare di confermare Najib Mikati primo ministro, come chiaramente richiesto dal duo sciita, Hezbollah e il partito alleato guidato da Nabih Berri, Amal. Per ottenere che Hezbollah rispetti davvero l’impegno preso (lo stesso che assunse ma non rispettò dopo la guerra del 2006) cedere sul premier potrebbe essere il prezzo necessario da pagare. Per altri sarebbe un prezzo troppo alto. Joseph Aoun sa benissimo, perché lo ha detto chiaramente nel suo discorso di insediamento, che la sua sfida non è solo questa ma anche ricostruire uno Stato distrutto. Il premier che ha presieduto compiacente alla fase finale di questa distruzione può essere l’uomo con cui far ripartire l’impresa di ricostruzione dello Stato? Forse no, obiettano in molti, ma se non ci fosse la disponibilità di Hezbollah al disarmo reale nei fatidici trenta chilometri non cesserebbero le ostilità e la ricostruzione dello Stato sarebbe poco più che un’intenzione irrealizzabile.

Il punto è che Hezbollah e Joseph Aoun sanno benissimo che la partita del disarmo non si conclude con il disarmo a trenta chilometri dal confine israeliano, dove scorre il fiume Litani. Il testo del cessate il fuoco è al contempo ambiguo e chiaro. Per molti nella comunità internazionale Hezbollah si è di fatto impegnata anche a disarmare in tutto il Libano, non solo a sud del Litani. C’è una risoluzione dell’ONU al riguardo, la 1556, citata nella risoluzione 1701 che portò al cessate il fuoco del 2006, e che è riportata anche nel cessate il fuoco di oggi. Nessuno in Libano può disarmare da solo Hezbollah, anche questa Hezbollah debilitata o indebolita. Ma se Hezbollah accettasse di disarmare solo al di là del fiume Litani e non al di qua, non dimostrerebbe di voler usare le armi, come ha già fatto quando uccise Rafiq Hariri e poi molti altri politici e intellettuali ad essa avversi, contro i libanesi che non accettano la sua egemonia miliziana?

La prospettiva con cui Joseph Aoun potrebbe affrontare questo nodo ancora poco considerato da molti – sarebbe secondo solo in ordine di tempo – potrebbe essere questa: assorbire i miliziani di Hezbollah nell’esercito nazionale, comunque agli ordini del suo successore alla guida dell’esercito, che sarà certamente persona di sua fiducia. Ipotesi certamente complessa, per alcuni più facile da conseguirsi con un premier compiacente con Hezbollah, che potrebbe smussare gli angoli di un simile processo, per altri più difficile da conseguire con un premier così. E questa scelta fondamentale si compie in queste ore. Per Hezbollah non significherebbe la fine, ma la scelta di diventare un partito libanese, che risponde cioè a un’agenda libanese e non straniera. Possibile, ma non facile per chi, nel suo documento costitutivo, ha scritto che il potere ultimo sulle sue decisioni sta nelle mani dell’ayatollah Khomeini e quindi oggi del suo successore

Per questo l’ex generale Joseph Aoun deve già da ora porre mano alla ricostruzione dello Stato e questo, per quanto possa sembrare strano, è difficile tanto quanto portare in porto il rispetto del cessate il fuoco. Per riuscirci davvero, come ha detto di volere, dovrebbe finalmente cominciare ad attuare quel comma del preambolo Costituzionale che indica nel superamento del confessionalismo un obiettivo nazionale dal 1990. Obiettivo mai preso in considerazione.

Secondo Saad Kiwan, a lungo direttore generale della Fondazione Samir Kassir per la libertà di informazione, raggiunto da Reset DOC, “il fatto che nessuna forza politica in vista delle consultazioni avviate il 13 gennaio 2025 abbia neanche accennato all’ipotesi di candidare Foad Siniora alla guida del governo dimostra che se davvero Joseph Aoun vuole mettere mano alla rifondazione dello Stato troverà più resistenze che alleati”. Foad Siniora è l’uomo che ha tenuto insieme il Libano dopo l’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri da parte di Hezbollah e su ordine di Assad. Ucciso nel 2005, Rafiq Hariri aveva ricostruito il centro di Beirut come gli è stato possibile o come ha voluto, ma ridando un’identità nazionale, un luogo comune, condiviso, a tutti i libanesi. Fu Siniora il solo a saper distinguere il Libano da Hezbollah ai tempi della guerra del 2006, secondo alcuni osservatori determinata dal Partito di Dio proprio per far dimenticare ai libanesi l’assassinio del loro ex premier grazie al ritorno del nemico esterno. E fu lui a ideare la risoluzione 1701, quella che tirò il Libano fuori da quel conflitto e che ancora oggi, rafforzata da un comitato internazionale di vigilanza, ha consentito di uscire dal conflitto dello scorso autunno.

È sunnita Foad Siniora, quindi potrebbe diventare premier, lo è stato: come mai non si parla di lui? “Perché Siniora conosce la macchina dello Stato e conosce il sistema confessionale, ciò che può essere salvato, aggiustato e le sue perversioni. È un civil servant e ha un’agenda politica al servizio della ricostruzione delle istituzioni, e non un’agenda istituzionale al servizio di chi le ha occupate, deformando il confessionalismo in un’occupazione permanente. Colpisce che uno dei pochi libanesi con un curriculum apprezzato in tutto il mondo e che ha dato tale dimostrazione di sé in anni difficilissimi non venga citato in queste ore”. “Ovviamente non è il solo – prosegue Kiwan – il suo successore, Tammam Salam, primo ministro nel 2014, darebbe anche lui garanzie. Ma il fronte ufficiale delle opposizioni alla vecchia maggioranza di Hezbollah sembra che abbia scelto di indicare il meno convincente Fouad Makhzoumi. È molto importante questa giornata, perché le proposte dei gruppi parlamentari sono vincolanti, se emerge un nome sul quale converge una maggioranza, il presidente deve rispettare questa indicazione”. Sottolinea Kiwan: “La vera notizia delle ultime ore è la voce riferita da una televisione e da un deputato nella serata di domenica 12 gennaio della disponibilità dell’attuale presidente della Corte Internazionale di Giustizia, Nawal Salam, ad accettare l’incarico se il parlamento lo candidasse”. Un giurista per uno Stato che deve ritrovare forma, sostanza ed abito?

La scelta è importante perché sebbene il governo si possa presto mettere in crisi e cambiare, il tempo perso è talmente tanto che Aoun non può perderne altro. Quello libanese è uno Stato da rifare nei suoi fondamenti perché ormai proprietà di una cupola affaristica, come dimostrano due fatti semplici e collegati. Il primo è che per ben trent’anni il governatore della Banca del Libano è stato sempre lo stesso, Riad Salameh. Definito la vestale degli interessi di tutti nel consociativismo libanese, è stato soltanto sostituito nell’incarico dopo che il Libano ha dichiarato default, benché mezza Europa lo ricercasse per accuse gravi, riciclaggio e altri reati finanziari. Solo lo scorso anno è stato arrestato. Una follia che reso la lira libanese carta straccia: la si cambiava a 1.500 sul dollaro dal 1990, da allora è precipitata, arrivando a oscillare, come oggi, intorno a quota 90.000. Quando la crisi è esplosa in tutta la sua incontrollabile gravità, la Banca del Libano ha disposto il blocco (illegale) di tutti i conti correnti in valuta pregiata. Una misura che ha messo sul lastrico tantissime famiglie.

Questo passaggio, drammatico e decisivo, va messo in relazione con quanto ricostruito recentemente dal quotidiano libanese Orient Today: “Secondo il Fondo Monetario Internazionale, i depositi in dollari erano ancora pienamente disponibili nel sistema finanziario nel 2014, anno in cui Ali Hassan Khalil è stato nominato ministro delle Finanze, su insistenza del movimento Amal e di Hezbollah, carica che ha mantenuto fino al 2020 [anno del default, Ndr]. La scelta di un default non organizzato è stata evidente non appena il presidente del parlamento Nabih Berri – sostenuto dall’ex governatore della Banca del Libano Riad Salameh e dall’Associazione delle banche in Libano – si è rifiutato di approvare una legge sul controllo dei capitali. Cinque anni dopo, questa misura chiave – adottata in casi analoghi in tutto il mondo – non è ancora stata attuata. Ciò ha aperto la strada a un enorme deflusso di capitali, stimato in circa 14 miliardi di dollari, compresi gli 8 miliardi che la Banca del Libano ha pagato alle banche nel gennaio 2020 (cioè due mesi prima della dichiarazione di default). Sebbene non sia stato celebrato alcun processo al riguardo, diverse fonti bancarie e giudiziarie hanno dichiarato che gran parte di questi fondi appartengono a politici, banchieri e personaggi influenti”.

Sono queste le cifre che inducono molti a parlare di una casta, costruita dai signori dei partiti confessionali che si suddividono il potere in un sistema impenetrabile. La litigiosità nel campo cristiano e in particolare maronita dove ognuno persegue un’agenda presidenziale, visto che il sistema riserva a loro questa magistratura, è tale da aver impedito ogni reale agenda di un loro protagonismo nella ricostruzione dello Stato. Dice a riguardo il professor Antoine Courban, docente alla Saint Joseph University di Beirut, intervistato da Reset DOC: “Oggi si può dire che il discorso pronunciato da Joseph Aoun dopo la sua elezione abbia dato speranza ai libanesi. Quanto ai cristiani, non riescono a frenare le loro rivalità, il che impedisce loro di svolgere il ruolo di apostoli del messaggio del Libano, vale a dire della fratellanza, come indicato da Giovanni Paolo II. Forse il nuovo mandato che inizia adotterà misure adeguate a porre fine alla casta politica che sta paralizzando lo Stato. È un lavoro arduo, ma rimango relativamente ottimista”.

 

 

Immagine di copertina: il nuovo presidente libanese Joseph Aoun sorride prima di entrare nel palazzo presidenziale a Baabda, vicino Beirut, il 10 gennaio 2025 (Foto di Anwar Amro / Afp).

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