Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nel 1997 si è aggiudicato un Pulitzer per aver parlato al grande pubblico con lo stesso linguaggio usato con i suoi figli. Ed è così che, dopo le sue continue missioni in Nuova Guinea, Jared Diamond è riuscito a dare risposta a tanti nostri perché. Quelli relativi all’evoluzione, al razzismo, alle disuguaglianze, all’ambiente e ai conflitti. Geografo vivente più famoso del mondo, Diamond è in realtà una matrioska di identità. “Mi pagano come geografo, mi descrivono come biologo, ma io mi sento un antropologo e anche un po’ un sociologo che fatica a stare in una sola categoria” ci dice, facendo la punta alla sua matita, strumento con il quale ha scritto tutti i suoi libri, da Armi, Acciaio e Malattie (Einaudi, 1998) a Da te solo a tutto il mondo. Un ornitologo osserva le società umane (Einaudi, 2014).
Guardando il mondo dei giorni nostri, quale è secondo lei la crisi da risolvere con maggior urgenza?
L’unica cosa che bisogna evitare di fare quando si vuole risolvere un problema è focalizzarsi su un’unica variabile. La soluzione vera si trova solo se si affronta la complessità, evitando pericolosi riduzionismi e connettendo tutte le diverse variabili. Le crisi che ora mi preoccupano di più sono due: quella delle risorse ambientali e il divario tra paesi ricchi e poveri. Nessuna sorpresa, ma visto che nessuno si è preoccupato di risolverle, ora sono più urgenti che mai. Acqua, petrolio e pesca devono urgentemente essere gestiti in maniera sostenibile. Prendiamo l’esempio della pesca dei salmoni. In Alaska sono pescati in maniera sostenibile, ma in molti altri contesti in maniera spericolata. Basta pensare alla pesca dei tonni nel Mediterraneo che valgono tantissimo sul mercato. Italiani, spagnoli e giapponesi – principali attori in questo campo – dovrebbero fare il possibile per conservare questa risorsa, ma non è così. Non hanno posto limiti a questa pesca sfrenata e fra qualche anno nessuno farà più soldi. E le prossime generazioni saranno anche senza tonni.
In occasione dell’Expo, in Italia si è tanto parlato di alimentazione. Se c’è cibo per tutti, perché il problema della fame non è stato ancora risolto?
Perché non è stato affrontato guardando le variabili giuste. C’è una buona notizia: abbiamo aumentato la produzione di colture e quindi c’è realmente cibo per tutti. E ce ne sarebbe a sufficienza anche se la popolazione globale aumentasse un altro po’. Il problema è che ci sono Paesi che stanno entrando nel club dei ricchi. E in questa transizione iniziano a mangiare di più, a volte abusando del cibo. Non è la crescita demografica a creare questa mancanza di cibo. È il consumo individuale della popolazione dei Paesi ricchi. E a questo bisogna aggiungere un’ultima osservazione: chi parte da nazioni povere per andare in Paesi ricchi mangia di più. Se c’è una variabile da tenere sotto controllo per combattere la fame, ecco questa è la crescita del consumo.
Non ci scordiamo poi che le questioni che colludono con l’alimentazione possono contribuire alle crisi politiche. Pensiamo alla Siria. A causa dell’aumento della temperatura, il clima è diventato sempre più secco e la mancanza di acqua ha fatto sentire le sue conseguenze sulla produzione di pane. Riducendo la produzione, il prezzo è schizzato alle stelle. E questo è stato uno dei fattori che ha fatto scoppiare la rivoluzione sfociata in guerra civile.
In Il mondo fino a ieri lei afferma che le società tribali hanno molto da insegnarci riguardo la soluzione dei conflitti. Come possono aiutare?
Il sistema tribale della risoluzione delle crisi è molto più efficace di quello occidentale. Pensiamo ai sempre più diffusi conflitti familiari e alle cause di divorzio. I giudici non fanno nulla per chiudere la sfera emotiva della vicenda. Molto spesso si esce dal tribunale più arrabbiati di prima. Per le società tribali invece bisogna risolvere alla radice le questioni sentimentali e accantonarle per risolvere il conflitto. Questo anche in ambito internazionale. Purtroppo la giustificazione dei conflitti con gli altri popoli può risultare vantaggiosa per una singola popolazione per un certo periodo di tempo, ma è la causa principale di molte guerre e di innumerevoli morti assolutamente assurde e ingiustificate. Una soluzione per ridurre la conflittualità e per alzare i livelli di creatività di tutte le società è, ad esempio, quella di allevare i bambini e gli studenti in un contesto bilingue o multilingue come accade in molte società tradizionali. Un’educazione bilingue rende la mente più elastica e arricchisce la vita.
Papa Francesco ha dedicato la sua ultima enciclica Laudato sì alla natura. Che cosa pensa del pragmatismo con il quale il sacro si è accostato al profano per affrontare un problema così concreto dell’umanità?
Finalmente. Era ora. È stato un peccato che le chiese, non solo quella cattolica, non si siano mobilitate prima. In altri ambiti la Chiesa è scesa in campo tanto tempo fa. Quando ho sentito che anche il Papa si stava mobilitando ho detto solo una cosa: che Dio sia lodato! Entro il 2015 o avremo raggiunto una situazione ecosostenibile, oppure sarà troppo tardi. Per evitare di distruggere irreversibilmente tutto, è ora di agire, senza perdere tempo.
C’è un aspetto dei suoi libri che mi sconvolge. Sono delle ricerche specialistiche che sono arrivate a coinvolgere il grande pubblico. Come se lo spiega?
Ho dedicato anni allo studio della vescicola biliare. Tutto il mio dottorato. Appena ho avuto i miei figli, ho capito che il futuro del mondo non dipende dal successo della risoluzione dei problemi alla vescicola biliare. Ho iniziato a dare più importanza ad altre cose. Nella scienza si sta andando sempre più verso la specializzazione. Anche all’interno delle università si parla di lavoro interdisciplinare, ma guai a chi lo fa! Se ci provi, sei tacciato di essere un traditore dall’accademia.
Per me scrivere libri è stata un’occasione per imparare qualcosa di più della vescicola biliare. Ho imparato tanto. Scrivendo pensando ai miei figli ho capito che le cose da spiegare al grande pubblico erano molto interessanti. Tutti vogliono sapere perché negli Stati Uniti c’è disuguaglianza, perché gli afroamericani sono meno ricchi dei bianchi. Eppure l’Africa è conosciuta come la culla dell’umanità. Le risposte dipendono da molte altre variabili. Io le spiego come se avessi davanti a me i miei ragazzi.
Ha una routine che segue quando scrive?
Inizio prendendo carta e penna. Io non faccio nulla con il computer. Odio gli aggeggi elettronici. Non ho un computer a casa, non ho un telefono cellulare – e non li voglio. Scrivo con una matita e detto tutto alla mia segretaria. Poi correggo a matita il suo testo e attraverso un processo navetta arriviamo al testo finale.
I suoi nipoti scriveranno ancora a mano?
Non ho ancora dei nipoti e penso che non avrò alcuna influenza sulla loro educazione, ma penso che continueranno a usare la matita – me lo auguro. Gli svantaggi degli aggeggi elettronici sono tanti. Nei rapporti personali e affettivi, ma anche sul modo di riflettere e scrivere. La penna costringere a una maggiore concentrazione. Serve riflettere molto di più prima di mettere nero su bianco un concetto. Non si può tornare indietro tante volte. Prima si devono coordinare i pensieri. Così si scrive la prima bozza. Poi c’è un secondo passaggio, quello in cui si trovano le parole giuste, una ad una.
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