Da Reset-Dialogues on Civilizations
Lo scorso 3 marzo Netanyahu ha pronunciato di fronte al Congresso USA il suo temuto discorso pre-elettorale ribadendo la “linea-rossa” di Israele sull’Iran, che può essere così sintetizzata: nessun accordo nucleare al ribasso sarà accettabile per Israele, ovvero nessun accordo tout court. Il discorso – fortemente contestato in patria dalle forze laburiste legate all’Unione Sionista, al centrosinistra di Yesh Atid, alla sinistra di Meretz ed ai partiti arabi, ma perfino da alcune personalità di spicco dell’“establishment della sicurezza”, come l’ex capo del Mossad Dagan – ha trovato, invece, una buona accoglienza nella parte di opinione pubblica vicina al Likud, alla “Casa ebraica” ed altri partiti di destra.
Danny Danon, ex viceministro alla Difesa, ha infatti affermato che l’intervento di Netanyahu al Congresso ha rappresentato un atto di grande coraggio e responsabilità politica, in quanto il Congresso è una delle poche autorevoli tribune internazionali in cui dar voce ai timori di Israele sul nucleare iraniano. Non solo, Danon ha anche aggiunto che “se i leader dell’Egitto o di alcuni Stati arabi moderati come l’Arabia Saudita, fossero andati a loro volta a parlare al Congresso, avrebbero ribadito la stessa identica posizione di Netanyahu: avrebbero, cioè, allarmato la comunità internazionale sulle ripercussioni di un cattivo accordo con l’Iran” (al-Monitor, 9 marzo).
Israele, da quanto emerge dalle parole di personalità vicine al Governo, condivide tacitamente una strategia di isolamento dell’Iran con l’”asse sunnita”, composta dai Paesi del Golfo e dall’Arabia Saudita, ostili agli Ayatollah. A tale asse si assocerebbero anche Paesi come Egitto e Giordania, in cerca degli aiuti economici dei Paesi del Golfo sia per fronteggiare il terrorismo interno che per controllare le potenti branche nazionali dei Fratelli Musulmani, e la Turchia, in cerca di una nuova influenza regionale.
Israele e i Paesi arabi cosiddetti “moderati” condividono un forte interesse strategico di medio termine: quello di evitare con tutti i mezzi che, ottenendo la bomba nucleare, l’Iran possa diventare una potenza regionale interprete di una politica revisionista, ovvero orientata a modificare a proprio favore gli equilibri vigenti attraverso l’impiego di forze satelliti (Hezbollah in primis). Israele sa anche che gli Stati del Golfo e l’Arabia Saudita condividono questa urgenza in maniera più pressante degli Stati Uniti e che, insieme, Arabia Saudita, Giordania, Egitto e Israele rappresentano i più grandi alleati regionali USA, in grado di fare pressione su di essi in vista di un intervento risolutivo.
Ad aggiungersi a ciò, e forse ancora più cinicamente, vi è la preoccupazione comune che il periodico riaccendersi dei riflettori sulla questione palestinese possa favorire l’Iran e l’”asse della resistenza”, cosa che né i Paesi arabi a maggioranza sunnita, né Israele vogliono. Sembrerebbe che, quindi, sia nel 2012 al termine dell’Operazione “Pilastro di Difesa” che nella recente Operazione “Margine Protettivo”, un tacito coordinamento si sia avviato tra Israele e i Paesi sunniti (ad esclusione della Turchia) anche su questo fronte: con il primo orientato a limitare le ricadute regionali dei suoi interventi militari nella Striscia, e i secondi disposti a mediare i vari cessate-il-fuoco e a donare aiuti per la ricostruzione nella fase post-conflitto, con l’obiettivo di stemperare al minimo le velleità di riscatto di Hamas o della popolazione palestinese, isolandone al contempo le frange più radicali (come la Jihad islamica).
Nonostante il Likud sembri dunque aver fatto, almeno nelle apparenze, “fronte comune” con i Paesi sunniti, i moderati del centro-sinistra, riuniti intorno al nuovo partito dell’Unione Sionista, lamentano invece che la politica estera israeliana verso i Paesi arabi moderati sia stata fin troppo timida e non abbia capitalizzato sulle opportunità apertesi con il “ripristino dell’ordine” nell’Egitto di al-Sisi e da sempre latenti con la Giordania di Re Abdallah. A partire dalla lotta al terrorismo, che avrebbe richiesto una maggiore cooperazione di Israele con i suoi vicini, ma anche dal dossier palestinese: un argomento sensibile per le opinioni pubbliche arabe e un ostacolo non indifferente alla collaborazione con Israele “alla luce del sole”.
Contrariamente a Netanyahu, Yitzhak Herzog e Tzipi Livni, entrambi candidati-premier dello schieramento di centro-sinistra, hanno già fatto sapere che qualora dovessero assicurarsi la maggioranza alle elezioni della 20° Knesset (il prossimo 17 marzo) e ricevere l’incarico di formare il nuovo governo, volerebbero immediatamente dall’”uomo forte” dell’Egitto, il Presidente al-Sisi, per convincerlo a riavviare il defunto processo di pace con Abu Mazen. Un “asse israelo-sunnita”, dunque, con potenzialità diverse da quelle attuali, sebbene sostanzialmente convergente sugli obiettivi di fondo.
D’altra parte, se tutti i candidati alle elezioni in Israele concordano nell’affermare che il “la questione nucleare iraniana” non rappresenti un dossier strumentalizzabile a fini elettorali, ma una preoccupazione trasversale comune a tutte le forze politiche, si riscontrano tra queste ultime toni assai diversi.
L’estrema destra dei coloni di Bennet e della Casa ebraica si domanda come sia possibile che una generazione di giovani israeliani cresciuta attraverso i terribili attentati terroristici della Seconda Intifada (2000-2005), quotidianamente minacciata dai missili provenienti da Gaza (a partire dal “disimpegno unilaterale” del 2005) e esistenzialmente dalla minaccia nucleare iraniana, possa pensare di votare altrimenti che con un plebiscito sulla sicurezza e dunque per Netanyahu, l’unico leader in grado di garantirla.
Il centro-sinistra, invece, composto da una compagine di partiti divisi ma insieme rappresentativi di circa metà dell’elettorato, ritiene che la sicurezza vada di pari passo con la sfida posta dalle crescenti disuguaglianze all’interno del Paese: una posizione maggiormente in linea col sentire dell’elettorato, che afferma in lieve maggioranza voler votare di preferenza sulle questioni socio-economiche (43% degli ebrei israeliani contro il 33%, IDI, dicembre 2015).
Da quanto si apprende dagli ultimi sondaggi, infatti, il discorso di Netanyahu al Congresso USA non avrebbe sostanzialmente “sfondato” in termini elettorali, lasciando in lieve vantaggio il principale avversario, l’Unione Sionista. Tuttavia, nonostante l’apparente divergenza nei toni, anche l’Unione Sionista condivide la preoccupazione che Israele sia lasciato solo di fronte al pericolo iraniano e si propone, in caso di vittoria, di recuperare un pieno rapporto di fiducia con l’amministrazione Obama perché Israele sia più, non meno, influente sull’accordo EU3+3.
È quindi chiaro che qualunque schieramento emerga dalle prossime elezioni la strategia israeliana cambierà nei metodi, non nelle intenzioni: nessun ripensamento strategico di grande portata è ipotizzabile sull’Iran. Quello che potrebbe sostanzialmente cambiare se il centro-sinistra dovesse andare al potere, però, sarebbero le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, quelle segrete con i Paesi “arabi moderati”, quelle ufficiali con i vicini Giordania ed Egitto e un rilancio del dialogo con l’ANP: abbastanza per affermare che la scelta degli Israeliani il prossimo 17 marzo non sia affatto indifferente per gli equilibri in Medio Oriente.
Resta da scongiurare il pericolo che, uscendo dalle urne testa a testa, Unione Sionista e Likud non decidano di dare vita ancora una volta ad una grande unione nazionale: scelta che porrebbe immediatamente fine ad ogni speranza di cambiamento.