Con una mossa a sorpresa che ha spiazzato gli osservatori internazionali, Arabia saudita, Egitto, Emirati arabi uniti e Bahrein hanno rotto le relazioni diplomatiche con il sultanato del Qatar e bloccato traffico aereo e marittimo da e per la penisola. Ai diplomatici qatarini sono state date 48 ore per andarsene.
All’annuncio dei promotori dell’iniziativa – i big player del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) – ha fatto seguito, nell’arco di poche ore, l’adesione di Maldive e Yemen (il Qatar è stato pure espulso dalla coalizione che combatte i ribelli sciiti Huthi nella Repubblica yemenita, ndr).
L’accusa formulata nei confronti di Doha è quella di perseguire una politica destabilizzante nella regione attraverso il sostegno a Fratellanza musulmana, al-Qaeda e Daesh.
Inoltre, secondo Riyadh, il Qatar appoggia gruppi ribelli sciiti in Bahrein e nel territorio saudita di Qatif, strizzando l’occhio, per così dire, all’Iran. Tale “connivenza” sarebbe dimostrata dalle recenti dichiarazioni dell’emiro qatarino in favore di Teheran e, ancor peggio dal punto di vista del Ccg, di Israele (poi smentite da Doha e attribuite all’hackeraggio della principale agenzia di stampa nazionale).
L’“enforcing” nei confronti del Qatar coglie di sorpresa innanzitutto per la sua tempistica: perché proprio adesso?
Le frizioni fra il casato dei Saud e quello, meno potente, ma assai ambizioso, degli al-Thani sembravano essersi stemperate nell’ultimo biennio, dopo un picco pericoloso in corrispondenza delle rivolte passate alla storia come Primavera araba. Allora Doha svolse un ruolo di primissimo piano, insieme alla Turchia.
Gli al-Thani scelsero di fornire supporto finanziario, logistico e militare a gruppi ribelli islamisti in Libia. E giocarono tutte le proprie carte in Egitto, in Tunisia, nella Striscia di Gaza, sempre al fianco delle diverse declinazioni della Fratellanza musulmana in ciascun Paese.
Azioni coerenti con la promozione di un modello politico avverso sia alle dittature militari del Nord Africa sia alle monarchie sunnite del Golfo.
Ma attenzione a non considerare gli al-Thani dei monarchi illuminati: il casato qatarino non solo condivide con i Saud l’adesione all’islam sunnita wahhabita, ma ne promuove la versione “sovversiva” e ancora più purista.
Ora tuttavia, argomentano i conoscitori del casato, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani, subentrato al padre Hamad bin Khalifa al-Thani, ha decisamente “tirato il freno”, optando per un profilo più basso in politica estera.
Certo, dipende da che cosa si intende per politica estera: se si parla di ingerenza diretta negli affari di altri Stati della regione, allora è cosa nota che la débacle della Fratellanza musulmana in Egitto abbia indotto Doha a più miti consigli; se però si valuta, come merita, la potenza di fuoco che l’emittente al-Jazeera ha su scala globale, allora è giusto dire che il Qatar è ancora assai aggressivo nel diffondere la propria visione culturale nel mondo.
L’emittente televisiva nata per volontà di Hamad bin Khalifa al-Thani nel 1996 ha sottratto il Qatar al cono d’ombra dell’Arabia Saudita, fornendo a milioni di telespettatori arabofoni una copertura inedita delle grandi crisi regionali, a cominciare dall’operazione americana in Iraq “Desert fox” (1998).
Nel tempo, il network si è ramificato ed è cresciuto a dismisura, ma la sostanza non è cambiata: i detrattori dell’emittente panaraba ne evidenziano la faziosità nella copertura giornalistica, a loro giudizio amichevole nei confronti di tutte le ribellioni islamiste; i fan, al contrario, ne sottolineano l’indipendenza e soprattutto la determinazione nel rimanere con i propri reporter in qualsiasi scenario, anche quando gli altri network se ne vanno.
Non stupisce dunque il blocco delle trasmissioni di al-Jazeera e la chiusura delle sue redazioni in Arabia Saudita e nei Paesi satelliti, dove negli anni i suoi giornalisti hanno avuto vita dura.
Insomma, il Qatar deve scontare un conto politico salato non tanto per aver sostenuto il terrorismo jihadista – anche se ufficialmente è questo che viene asserito dai suoi nemici – ma per averlo fatto in modo autonomo rispetto alle linee guida di Riyadh, in primis, e poi in modo ostile contro i Saud e i loro alleati.
Rimane la domanda chiave. Perché adesso? Perché la recente visita di Stato del presidente americano Donald Trump ha dato la sensazione ai custodi dei luoghi santi dell’islam di avere carta bianca nella regione. Tutto pur di contenere l’Iran e, magari più avanti, sconfiggerlo anche militarmente.
Non è chiaro se tale effetto fosse previsto e ricercato da Washington.
In realtà, proprio la natura “non allineata” del Qatar (che condivide con l’Iran la maggiore riserva di gas al mondo) ha fatto gioco agli Stati Uniti d’America di Barack Obama nella riapertura del dialogo con Teheran, così come la tradizionale predisposizione dell’Oman a fare da tramite fra musulmani sunniti e sciiti.
La precedente amministrazione statunitense si è fidata della capacità del Qatar di tenere il piede in due scarpe, confermando nel 2013 per altri dieci anni la presenza dei propri militari nella base aerea di al-Udeid.
Ora a Doha rimane poco da fare: avvicinarsi ancor di più all’Iran, voltando le spalle ai fratelli del Golfo, significherebbe mettersi contro anche la “nuova” Casa Bianca e gran parte dei Paesi occidentali. Con danni rilevanti ai corposi investimenti nel Vecchio e nel Nuovo mondo.
Rimane allora una seconda possibilità: rinunciare a mettere in discussione lo strapotere dei Saud. Ma questo ricaccerebbe il sultanato nelle retrovie della politica mediorientale: sarebbe davvero una buona notizia, se il Qatar fosse l’unico deus ex machina del virus jihadista. E verrebbe da chiedersi perché nessuno ci abbia pensato prima.
Due anni fa, in un’osteria milanese, una fonte libanese avvezza a frequentazioni monarchiche nel Golfo mi raccontò con dovizia di particolari: “Ho visto con i miei occhi, alla fine di un banchetto e di un giro di liquori, i commensali, tutti muniti di valigetta con milioni di dollari in contanti, mettere sul tavolo la propria offerta a sostegno del Daesh. Mi è stato assicurato che succede in diverse città del Golfo più di una volta al mese e che i supporter del califfato appartengono trasversalmente ai maggiori casati della regione. Considerano un dovere aiutare al-Baghdadi, oltre che una rivincita sulla Storia, sempre avversa ai sunniti”.
Ecco perché il regolamento di conti in atto nel Consiglio di cooperazione del Golfo non è un buon segno per la lotta al terrorismo islamista, da qualsiasi punto lo si osservi.